analisi
di LELE JANDON
Grande Rentrée domenica 29 ottobre 2017 alle 16 all'Hotel Enterprise a Milano. |
Quest’estate Vi ho parlato qui nel Blog dei sociopatici, categoria sconosciuta agl’ignoranti
giornalisti; dopodiché, sono stato un bel pò all’estero: con Antonello Ghezzi
abbiamo girato i video per ben quattro
documentari di nostra produzione che proietteremo durante la prossima stagione
de “Il Cinema e i Diritti” che inauguriamo alla grande rentrée domenica 29 ottobre ( https://www.youtube.com/watch?v=VW2lf15CZec)
all'Hotel Enterprise di corso Sempione 91 a Milano (state aggiornati nel nostro sito www.ilcinemaeidiritti.it).
Ma ho recuperato quei giorni di assenza essendomi fatto mettere
da parte dalla mia cara edicolante Anna le pile di giornali per sapere gli
avvenimenti italiani: benché i giornali non siano certo linguisticamente
creativi e stimolanti, resti all’antica e, curioso della realtà sociale, mi
leggo pure i trafiletti, come da tradizione della mia famiglia, e considero sin
da bambino l’edicola (che purtroppo, piano piano tende a scomparire dal nostro paesaggio italiano) un Luogo d'incontro e confronto con chi forse più di tutti i giornali se li legge e cioè il
giornalaio.
Ebbene, le notizie estive che ho trovato al mio rientro sono in un primo
momento deprimenti, dopodiché ci spingono a proseguire il nostro
impegno per stimolare una cultura dei Doveri sociali (fratellanza,
responsabilità e creatività), non solo dei diritti. Ho letto storie di madri che si rivelan matrigne, di
“fidanzatini” che divengon spacciatori o stupratori od uccisori delle
“fidanzatine”, di pazienti malati gravi che divengono oggetti snobbati da
sociopatici in camice bianco.
Proverò, dunque, a fare il riassunto per chi invece sotto l’ombrellone sia rimasto ignaro degli orribili accadimenti di questi quattro mesi nel nostro Paese, trovandone il minimo comun denominatore: la mancanza d’amore familiare e di amore civile ossia quel senso di fratellanza che dovrebbe tenere insieme, bella coesa, una società civile sana e forte, una Big Society.
Proverò, dunque, a fare il riassunto per chi invece sotto l’ombrellone sia rimasto ignaro degli orribili accadimenti di questi quattro mesi nel nostro Paese, trovandone il minimo comun denominatore: la mancanza d’amore familiare e di amore civile ossia quel senso di fratellanza che dovrebbe tenere insieme, bella coesa, una società civile sana e forte, una Big Society.
Riguardano
perlopiù, come provo a riassumere in questa
galleria degli orrori, i nostri
giovanissimi e le loro disgraziate famiglie ed il rapporto con il valore attribuito
alla vita umana.
E da questa
galleria di volti di persone uccise emerge il
ritratto di un Paese gravemente malato di una totale confusione etica, ove risultano precari tutti i rapporti sociali, dalle
famiglie che si auto-distruggono alla superficialità dei rapporti di vicinato
alla generale alienazione sociale e scomparsa del valore dell’amicizia. Una lunga scia di
persone che sono morte, a sorpresa, per mano di chi doveva prendersi cura di
loro. Se non siamo capaci di guardare in
faccia questo volto del nostro Paese non troveremo la buona volontà per mutare
questo disordine sociale.
Ciò che vorrei qui proporre è un’analisi della nostra
società ammalata le cui malattie emergono spesso, come avrete notato, proprio
d’estate, la stagione tipica dell’acuirsi delle psicosi più o meno latenti, e
degli atti di violenza contro le persone, in
un Paese che spende assai meno che altri in Europa sulle cure psichiatriche
pubbliche e sul sociale in generale.
Vorrei altresì dimostrare quanto sia, paradossalmente,
istruttivo riflettere, sia a livello d’analisi che di sintesi creativa, intorno
a questi fatti, se si è capaci di riunirli assieme e ricondurli alla mancanza
di un’idea creativa di società, che è esattamente quell’intelligenza di sistema
che manca ai nostri politici ignoranti, peraltro attualmente la classe politica
meno preparata di sempre come ha scritto persino “L’Espresso”. Non solo perché ci ricordano che esistono le varie
forme di mali morali, ma anche che dobbiamo proteggerci a vicenda nella società civile giacché
talvolta lo Stato è latitante. Perché quand’anche noi consideriamo lo Stato
fallito laddove dovrebbe proteggerci, non possiamo permetterci di fallire noi stessi
come società civile.
La risposta
responsabile che noi tutti possiamo dare allo stato di cose in cui lo Stato è
debole coi forti (cioè coi prepotenti) e forte (cioè prepotente) contro i
deboli, è una società forte, è dare forza ai nostri legàmi sociali.
Mussolini proibì la cronaca nera in quanto eversiva ed
emulativa; oggi, possiamo invece farne un uso pedagogico: il filosofo Aristotele
scrisse che le “tragedie” (raccontate appunto nelle tragedie greche classiche)
sono “fatti
che possono accadere”: ebbene, sono possibili, non necessarie. Non
sono, cioè, “fatalità”, né esiste il destino.
Voglio qui mostrare come simili orrori antisociali chiamàti
“tragedie” nello sciatto, banale e
miserrimo linguaggio dei media, si possano prevenire se c’impegniamo, ciascuno
nel proprio piccolo àmbito di relazioni umane, ogni giorno a contribuire a
costruire una società forte.
Viviamo l’odiosa contraddizione di una cultura ove nella TV
pubblica viene dato ampio spazio agli astrologi sedicenti predittori del nostro
futuro ma non c’è una cultura della prevenzione in vari àmbiti.
Per esempio il dovere di creare un luogo sicuro per i
propri collaboratori.
Scrive Alessandro Gilioli su “L’Espresso”: “Se chiedete ai giornalisti perché scrivono “morti”
bianche” riferendosi a chi lascia la pelle sul lavoro, molti vi risponderanno
con un “boh, si usa così”. Fu il linguista Giorgio De Rienzo a spiegare che
l’aggettivo “bianco” allude all’assenza di una mano direttamente responsabile
dell’incidente”. Così, in sostanza, si dà per scontata la fatalità, la
casualità dell’evento, un po’ come per le morti in culla dei neonati, chiamate
anch’esse “bianche”. Nel 2008 lo scrittore Marco Rovelli (nel suo libro “Lavorare uccide”) contestò
quell’espressione “che purifica e cancella ogni macchia, cosicché nessuno sarà
chiamato a risponderne”. (…) No, non esistono le morti bianche. Esistono le
morti sul lavoro (peraltro in aumento) che hanno sempre una causa e mai nulla
di candido.”
Insomma, anche le parole creano la cultura, e la cultura è
anche cura delle parole: non esistono “raptus” di persone normali improvvisamente impazzite come per
effetto di una magia nera, né sociopatici che si “pentono” e si tramutano in
persone buone e perdonabili ed intervistabili. Tutte queste paroline apparentemente
innocentine sono tutte fake news sin
dal titolo stesso.
Ebbene, in questo mio intervento vorrei trattare di un
ennesimo tema che i nostri media snobbano (del resto questa è la mission de “Il Cinema e i Diritti” http://www.ilcinemaeidiritti.it/la-nostra-mission):
la prevenzione collettiva dei mali sociali, dell’odio distruttivo che dimostra
la mancata costruzione della nostra società sicché ci ritroviamo ancora
all’auspicio di D’Azeglio: “una volta fatta l’Italia, bisogna fare
gl’italiani”, cioè formare gl’italiani. Informare è anche formare, insegna la
BBC, e invece con queste terminologie menzognere si deforma la realtà, non
s’informa correttamente e non si forma una coscienza corretta.
****
ESEMPI di
DISTRUTTIVITA’ del MULTICULTURALISMO: QUESTIONE ROMENA e QUESTIONE ROM
A Perosa Argentina (Torino), la 31enne Alina ha
accoltellato a morte al cuore (immagino con un coltellaccio da cucina) la
figlioletta Tatiana, di sei anni, dopodiché si è uccisa. Il fatto non ha riscosso approfondimento,
figuriamoci, come sempre accade se le vittime delle disgrazie sono di origine
straniera, come ha notato anche in generale Roberto Saviano.
Come spesso accade coi padri della Romania, ove esiste un
enorme problema culturale sul concetto di famiglia, anche il padre di Tatiana
era latitante, né aveva mai riconosciuto la bimba. La giovane donna era giunta
qui da maggio, ove aveva raggiunto la madre che ci lavora da quindici anni,
accasata con un italiano. Sappiamo che era seguita dai servizi psichiatrici e
che aveva tentato di abbandonare la figlia quand’era in Romania, un paese ove
esistono, come dice il titolo del romanzo della scrittrice di origine romena
Ingrid Beatrice Coman, “Il Villaggio senza
madri”, composti cioè da sole nonne,
perché le mamme sono tutte emigrate a fare le badanti all’estero in Italia.
Aggiungerei che in Romania esistono altresì “villaggi senza padri”, ove tutto è sulle
spalle delle donne come se fossero tutte vedove dopo una guerra.
La scrittrice di origine romena Ingrid Beatrice Coman vive a Malta. |
Esiste una “sindrome italiana”, come l’hanno denominata due
psicologi ucraini, una forma di depressione di cui nessuno qui s’interessa, e
che può portare appunto non solo al
suicidio (come vediamo nel tragico finale del romanzo “Orfani bianchi” di Antonio Manzini che
Vi ho citato al mio cinetalk sul tema (di cui già avevo parlato qui: http://lelejandon.blogspot.it/2015/12/) ma addirittura
al figlicidio, se il figlio non è desiderato e non si ha senso materno.
Una società, come quella romena, ove hanno senso di
responsabilità solo le donne, le mamme e le nonne, e dove troppo spesso i
maschi solo lasciati all’alcolismo e all’irresponsabilità, è una società
malata. Dobbiamo trovare forme di
collaborazione con la Romania, che è con noi nell’Unione Europea, per favorire
una responsabilizzazione degli uomini perché le situazioni come quella di questa donna così sola
con sua figlia sono la norma laggiù e quaggiù.
Il Corriere ha
presentato come una cosa positiva la storia di Giorgia, una 17enne di origine
romena liceale modello e poliglotta che vive da sola col fratello 25enne,
perché la madre è tornata in Romania per cercare lavoro (il padre è morto per
un tumore), eppure nessuno si è posto la “questione romena”. Certo, in tanti
che conosco se la sono cavata bene dopo la morte di un genitore, diventando
precocemente più responsabili e dandosi da fare per aiutare in famiglia, ma qui stiamo parlando di una situazione di
un minore senza genitori appresso: una situazione che non va assolutamente
normalizzata. Il minore ha diritto ad
avere con sé almeno una figura genitoriale che se ne prenda cura. Se quella ragazza fosse stata nostra connazionale, gl’italiani
avrebbero commentato così positivamente questa notizia? La risposta è
senz’altro no, perché quando anche inconsciamente applichiamo il
multiculturalismo, che come in questo caso è una forma d’inconscio razzismo, noi tolleriamo
pratiche culturali che non accetteremmo nella nostra cultura dei diritti e
doveri.
Mentre gli Stati
Uniti piangevano la morte in California, per un cancro al seno, di Maryam
Mirzakhani, scienziata che dall’Iran si
era naturalizzata americana levandosi finalmente il chador e maritandosi con un non-musulmano (diritto negato in
qualunque Paese islamico), nella Repubblica islamica dell’Iran (che dava la
notizia photoshoppandola col velo), accoglieva
nel Parlamento di Teheran la “nostra” rappresentante (candidata al Nobel
per la “Pace”) Federica Mogherini (sorridente come non mai nel suo volto duro
in stile “presidenta” della Camera) la quale viceversa, proprio per quel grottesco multiculturalismo che benedice retaggi da
superare (e non incoraggiare!), col suo chador
in capo si prodigava in selfie con
quegli stessi politici maschilisti che mandano a morte, per esempio, i
ragazzini minorenni gay. Tutto ciò
mentre una ragazza originaria dell’Iran, che s’è maritata anche lei con un
cristiano ed ha mutato religione, veniva respinta dalla Svezia che non la
considera meritevole di asilo nemmeno considerando il fatto che il paese
d’origine di lei la considera per legge meritevole della morte per apostasia). Proprio
dalla Svezia era stato respinto, assieme ai genitori, Adan, 13enne curdo di
Kirkuk (Iraq), costretto su una sedia a rotelle e sofferente di distrofia
muscolare: è morto cadendo dalla sedia in un ospedale di Bolzano, e su questa
disattenzione dei sanitari che dovevano prendersi cura di lui la procura ha
aperto un’inchiesta.
A Firenze una
15enne, già tenuta segregata in casa
(poteva uscire solo per fare le compere per la famiglia) sin da quando aveva 13 anni era già stata
promessa in vendita “come sposa” dal
padre Rom ad un serbo (anche lui della stessa etnia, risiedente in Francia)
al prezzo di quindici mila euro. “E’ la nostra Tradizione”, spiega la “madre”
come se stesse facendo un’opera di mediatrice culturale: ecco un esempio (il
matrimonio combinato) di multiculturalismo distruttivo. Il padre è stato
arrestato per “riduzione in schiavitù”. La
bambina non è stata salvata da degli adulti deputati a sorvegliare l’infanzia,
no: l’ha salvata un coetaneo che lei aveva conosciuto nella chat di un videogame. (Proprio un “mediatore
culturale” presso una cooperativa di
Bologna, un 24enne islamico, riguardo la disumana violenza sessuale di Rimini
di quest’estate, di cui tratterò più avanti, ha commentato in uno sgrammaticato post su Facebook che lo stupro è peggiore ma
solo all’inizio, poi la donna s’abitua, “diventa calma” e “gode come un rapporto sessuale normale”: l’apologia della
violenza sessuale che evidentemente deve aver praticato in prima persona).
Intanto, a Trescore Balneario (Bergamo) due bande di Rom
appartenenti a “famiglie nemiche”, “due veri e propri clan”, cosche che vivevano entrambe nel lusso, si sono sparate a
vicenda in mezzo ad un piazzale, dopo essersi speronate col suv, e si sono
presi a pugni, spranghe, ramazze e bastonate per una questione d’invidie per
donne. Già a maggio, uno di questa etnia aveva tentato di uccidere uno zio ed
una cugina, e due anni fa in una villa di una famiglia Rom è stato sequestrato
un arsenale d’armi.
Contro simili retaggi (nozze combinate, commercio di
bambine, faide fratricide) lo Stato deve mostrare “tolleranza zero” e deve
comportarsi esattamente come contro qualsiasi altra forma di criminalità, senza
attenuanti e scusanti.
****
LUTTI NON
ELABORATI che PORTANO al SUICIDIO
Uno dei problemi della nostra società contemporanea, conseguenza del venir meno delle reti d'amicizia e solidarietà di un tempo, è l'incapacità di elaborare pienamente i lutti. "Il Cinema e i Diritti" ha dedicato un'intera rassegna proprio a questo tema. Quest’estate ho
notato due casi, un uomo ed una
donna, che si sono tolti la vita in sèguito alla mancata elaborazione di un
lutto di un genitore (la madre in un caso, il padre nel secondo).
"Le Suicidé", quadro del pittore Manet (1832 - 1883). |
Giuseppe, un 56enne
di un paese vicino Padova, insegnante d’equitazione ed impegnato in politica
con la Liga Veneta, che “aveva 4000 amici
su Facebook” (chiaramente un numero
fuori dalla realtà reale, non corrispondente a reali amicizie), ha scritto
questo messaggio, neanche sibillino: “Arrivi al punto della vita in cui ti
chiedi se restare o no, io non resto”, a caratteri cubitali, ma si sa che nel
nostro Paese che sempre pensa male (la ragazza suicida che ricordo sempre nelle
mie conferenze sul cyber bullismo pure era stata subito tacciata di protagonismo,
esibizionismo e narcisismo) e tutti han fatto finta di non vedere quel post e
così nessuno ha dato l’allarme che c’era un aspirante suicida. Il pover’uomo non aveva mai superato il
lutto per la morte della madre, avvenuta questo Ferragosto dopo lunga
malattia.
L’altro caso
appartiene ad un'altra categoria: quella del crimine (che resterà per sempre
impunito proprio come quello dei terroristi-kamikaze) del figlicidio.
Vicino Grosseto ha ammazzato il proprio figlio una
vigilessa 55enne, il cui padre s’uccise 31 anni fa lasciandola con un senso di
tradimento e perdipiù per la misera ragione di restar senza un soldo: non era
mai stata aiutata ad elaborare il lutto traumatico (un
tema, quello della vastità di persone fra noi che non riesce a elaborare un
lutto a cui ho dedicato una rassegna cinetalk appena trascorsa: abbiamo
visto come un lutto non elaborato possa portare una madre alla pazzia come nel
caso della mamma protagonista del film “Babycall”
http://lelejandon.blogspot.it/2017/05/labbraccio-del-pubblico-ad-antonella.html ). Ebbene, dopo una
giornata “normale” (pareva solo un po’ stanca, dicono i suoi disattenti
colleghi) alle sette del mattino ha sparato al figlio 17enne dormiente con la
pistola d’ordinanza, dopodiché si è uccisa.
Una maniera certo, pensata come indolore, una “dolce” morte,
ma come si permette un qualunque
genitore d’arrogarsi il diritto di spezzare la vita di un simile ragazzo,
peraltro promettente studente modello? Quella vita non è di sua proprietà,
appartiene a sé stessa.
Dunque se mia madre sta male per pregressi problemi propri
ha il diritto di uccidere anche me che sono suo figlio quasi maggiorenne?
Chiaro che questa concezione simbiotica è malata (che presuppone viceversa che
se fosse morto suo figlio si sarebbe uccisa anche lei, chiaro), come tutte le
relazioni così impostate. E se non
c’indigniamo all’orripilante idea dell’”omicidio altruistico” (come alcuni
“psicologi” lo chiamano con termine che crea solo confusione etica) quei padri e madri che accarezzano simili
idee da antichi patres familias
romani non troveranno inibizioni a metterle in atto se stimano così tanto
sé stessi e così poco i propri figli persino così grandi da non ritenerli
capaci di crescere anche senza la loro potestà.
Naturalmente,
nessuno condanna costei né le “madri” che dicono di dimenticare i figlioletti
in auto sotto il solleone e che godono nel
nostro ben strano Paese dell’assoluzione piena. Poverina, è la (presunta)
depressione, dice la vulgata propagandata dai soliti giornali: peccato che
abbia lavorato sodo sino al giorno prima di questo figlicidio.
Pareva solo un po’ stanca: questa presunta virtù della
“discrezione” (che altro non è che menefreghismo) si rivela invece per ciò che
è, un vizio che distrugge la nostra società, ove emerge questo non-sentimento, il fatto che non
ci sentiamo in benché minima parte più responsabili della vita non già “degli altri” ma del nostro diretto
prossimo.
E quest’orribile
figlicidio non fa che confermarci quanto
sia urgente un obbligo di test psico-attitudinale per chiunque, uomo o donna,
ha una divisa e relativa pistola d’ordinanza. Pochi giorni fa proprio un
vigile urbano si è ucciso per il disonore di venire inquisito per le troppe
assenze ingiustificate dal lavoro.
E il fatto che ci possa essere una forma depressiva latente
non fa che confermare quanto siamo diventati socialmente disabili: inabili a riconoscere i
segni di sofferenza di chi ci sta vicino!
Pochi giorni fa nel
centro di Como abbiamo visto un ennesimo fallimento dei servizi sociali che
“seguivano” un’intiera famiglia: un 49enne padre marocchino musulmano ha
condannato al rogo sé stesso e tutti i suoi figli. Frustrato e disperato perché
senza lavoro, senza i soldi nemmeno per comperare il latte alle quattro figlie
– come racconta una signora straniera, la cui figlioletta va allo stesso asilo
di una di loro-, temeva che i servizi sociali gli portassero via i figli (intervistata
a riguardo, la responsabile conferma che era già un’ipotesi quella di
togliergli la patria potestà). Eppure, esistono gli affidamenti provvisori, le
case-famiglia, le adozioni: un genitore che ama i propri figli dovrebbe pensare
a ciò che è meglio per loro, l’idea di proprietà di una persona non è amore,
che è sempre rispettosa cura e custodia.
Una mattina, anziché mandarle a scuola com’era suo preciso
dovere, ha estratto il combustibile che aveva comprato (è stato rinvenuto
materiale incendiario) e ha dato fuoco al proprio appartamento (di proprietà di
una fondazione benefica): sono rimaste uccise, bruciate vive come le streghe
del Medioevo, tre figlie, mentre grazie all’intervento di un vicino che con un
badile ha spaccato la porta, una di cinque anni è morta l’indomani. La moglie non
era in casa: era ricoverata in una struttura psichiatrica. Nessuno si è accorto
quanto il padre fosse pericoloso e bisognoso e lui ha lasciato una lettera in
cui si dice abbandonato dai servizi sociali. “Ma il sociale dov’è?” si chiede il vicino soccorritore. Ecco, questo è stato un
caso in cui i vicini sono stati collaborativi mentre lo Stato è stato
incompetente e quindi la solidarietà del vicinato è stata insufficiente. Anche
qui siamo di fronte ad un genitore che crede nel diritto dell’antica Roma di
vita e di morte verso i propri figli. Al di là della considerazione che in un
caso la madre vigilessa ha scelto un metodo di uccisione indolore (il colpo di
pistola), nell’altro la maniera più dolorosa immaginabile (dare fuoco), resta
che il
vero genitore è chi dona non già la vita ai propri figli, ma gli dona una buona
vita e li educa alla vita, non certo chi gli toglie la vita! Chissà
che trauma per i compagnucci di quelle bambine sapere come sono state uccise le
loro compagne dal loro papà.
****
BAMBINI di
TRE-QUATTR’ANNI LASCIATI IMPUNEMENTE INCUSTODITI:
UNO MUORE IN
AUTO, L’ALTRO GIRA di NOTTE in PIAZZA
Vicino Verona, alle cinque del pomeriggio di Ferragosto, 34 gradi, Richard, un bimbo di
quattr’anni per ben mezz’ora non viene tenuto sotto controllo dalla sua
disgraziata madre 40enne, prende le chiavi della macchina, si chiude “dentro
nel bagagliaio” (sic: strano
giuoco, eh?), lei finalmente si rammenta di avere un figlio e di avere il
preciso còmpito di averne custodia, e, ops, lo ritrova ovviamente privo di
sensi: il piccolo muore ore dopo senza mai aver ripreso conoscenza. Alcuni
notano che questa “madre” racconta la non-credibile vicenda con la stessa
freddezza dell’assassino psicopatico di Chiara Poggi. (Proprio vicino Verona,
il mese prima un bimbo era stato “dimenticato” dentro e venne salvato perché
scoperto da un passante).
Questo mese alle
quattro e mezza della notte, i carabinieri di Bologna ricevono una
chiamata: in piazza Maggiore un bambino
di tre anni, in pigiama e a piedi nudi, girovaga come un senzatetto. Mentre
il padre e la bambinaia dormivano, il piccolo aveva aperto la porta
dell’appartamento, il portone condominiale e pure il cancello.
Intelligentissimo, il bambino ha saputo indicare ai militari l’auto della
madre, parcheggiata in zona, e così hanno chiamato lei, che si trovava fuori
casa, in ufficio (non sto scherzando) perché, da stakanovista carrierista
nostrana, doveva ultimare un lavoro a scadenza. Il padre dormiva così
profondamente che non ha risposto al citofono ai carabinieri. Il bambino “è
stato riaffidato ai suoi familiari” (sic) e il procuratore ha già archiviato la
pratica: sono cose che succedono.
LA MINORENNE
UCCISA dalla GUIDA IRRESPONSABILE della MADRE
Un altro esempio di genitore che ha colpevolmente
fallito il proprio còmpito educativo è la storia orribile di quella madre 39enne
d’Ivrea la cui figlia 13enne Beatrice è rimasta uccisa (sbalzata fuori dall’auto) perché lei (la guidatrice) non le
aveva fatto indossare la cintura di sicurezza: ciò che chiunque dovrebbe
sapere è che la cintura salva la vita. Ora è indagata per omicidio stradale,
secondo la nuova norma: la punizione dovrebbe essere normale, non esemplare.
Siamo arrivati a questo punto: ormai
persino una madre, che antropologicamente -per istinto ed intuito- sa come
proteggere i propri figli, risulta incapace di farsi ascoltare nemmeno sull’abc
della sicurezza personale.
Ovviamente sui social tutte le donne s’identificano col dolore della madre, non certo
con i diritti dei minori di ricevere un’educazione ad aver cura di sé.
****
RISCOPRIRE IL
SENSO del BUON VICINATO
con Semplicissime Iniziative Simpatiche: Piccoli Gesti che costruiscono una Grande Società Civile
In Austria e Germania la Festa dei Vicini si dice "Sommerfest" (Festa d'Estate) |
Fatalità, ogni qual volta sentiamo intervistati al TG i
vicini degli assassini, tutti dicono la stessa cosa: non eravamo abbastanza
“vicini”, “sembrava” così gentile, normale, tranquillo.
Nessuno mai in questo Paese tematizza questo limite
culturale: che non abbiamo mai lanciato una cultura del buon vicinato. I vicini si
ritrovano più nei tribunali a farsi la guerra civile che non nei cortili a fare
festa d’estate!
Proprio ora che a
Milano sono avvenuti almeno due episodi di tentati assalti da parte di due
pericolosi pedofili criminali ai danni di due bimbe,
una di origine cinese ed una italiana, dovremmo davvero
riscoprire il senso pratico dell’essere conoscitori e collaboratori dei nostri
vicini di casa: affinché diano un occhio in più ai nostri figli che magari
vanno o tornano a casa da scuola da soli a piedi.
Ho già parlato della festa dei vicini, che in Francia si
chiama fête des voisins e in
Austria e Germania Sommerfest ( http://lelejandon.blogspot.it/2014/10/ri-creare-un-senso-di-comunita-e-una.html
) e al mio cinetalk Vi ho spiegato come organizzarne una.
E stavolta, allora, Vi parlo di un'altra possibile iniziativa.
Da otto anni è stato introdotto con successo in alcune
città italiane il “controllo di vicinato”, nato in America, ove c’è una cultura
del buon vicinato, e diffusosi nei Paesi anglosassoni. Diventando parte
volontaria di questi gruppi di controllo, i concittadini si sentono
responsabili, e si segnalano reciprocamente per esempio via Facebook o via
whatsapp od SMS movimenti sospetti di forestieri, auto in perenne sosta, cose
così.
Ritirano la posta dei vicini che sono a lungo via per le ferie, onde non
attirare l’attenzione dei ladri, eccetera. A Milano, per esempio, servirebbe
per segnalare certi brutti ceffi sedicenti controllori che citofonano nelle
case e nei condomini e palazzi magari per truffare persone anziane (è capitato
varie volte anche a me: la prima cosa da fare è avvisare i nostri vicini). Ecco, questo è uno dei vari modi in cui noi
possiamo e dobbiamo riscoprire il fatto di essere corresponsabili
della vita degli altri.
Responsabilità
deriva dal latino e significa “risposta”: essere responsabili significa essere capaci di
rispondere, ebbene, quando abbiamo dinanzi
l’espressione, anche malcelata, di emozioni morali come la tristezza, siamo
chiamati a dare una risposta di umanità: una domanda d’interessamento sincero,
una parola ed una pacca d’incoraggiamento.
Per esempio, il fatto di aver tutti noi provato la
tristezza dovrebbe farci sentire più vicini a chi questa tristezza la vive come
costante compagna, e dovremmo attivarci con tecniche d’ascolto attivo che
dovrebbero diventare intuitive, istintive, parte della nostra etica pratica
quotidiana. Io mi sono convinto che il problema-clou della nostra desolata solitudine contemporanea sia proprio
questa: che non ci guardiamo più dritti in faccia, facciamo sempre tutto di
sfuggita. Ci divertiamo ad additare tutti i ritocchi plastici dei volti dei VIP ma
poi siamo deficienti nel riconoscere le microespressioni di mestizia nei volti
dei nostri vicini. Eppure chi è sofferente
è riconoscibile facilmente dal fatto di esser sfuggente, e di guardar altrove.
E così, la gente accetta queste “disgrazie” (cose che
càpitano) familiari di queste famiglie “tradizionali” ma poi trovano a priori
inaccettabili famiglie composte da due papà o due mamme (che sono tali proprio
perché c’è un ardente desiderio di essere padri e madri e c’è un eroico
desiderio di amare nonostante il mancato sostegno della malapolitica).
****
I FEMMINICIDI
Mentre il grottesco segretario del partito democratico
invoca il dipartimento “mamme”, confermando
che i padri (come lui stesso) non hanno eguali doveri ma solo carriere,
sono sempre più hotel e ristoranti “no
children” (niente bambini): sintomo di una reazione ad un modello malato di
famiglia e di ineducazione. (Nei vari Paesi d’Europa ove sono stato quest’estate ho visto
solo famiglie felici, babbi affettuosi e premurosi e non per questo meno
virili, e bambini educati che non strillavano nemmeno giocando gioiosi sulla
spiaggia e sul mare!).
A Cantù (Como) un 42enne egiziano butta giù la compagna
connazionale 39enne giù dalla finestra (lei se la caverà con fratture a bacino
e gamba e una serie di traumi gravi), dopodiché scappa a prendere un aereo (coi
figli avuti dal precedente matrimonio): viene bloccato mentre stava per
imbarcarsi.
IL CASO DELLE DONNE SFRUTTATE DAI PARTNER COME BANCOMAT
Altro piano stupido quello di un 62enne che a Roma strangola ed impiega sei ore a fare a pezzi la
sorella minore, la 59enne Nicoletta, donna delle
pulizie, dalla quale dipendeva economicamente, dopodiché ne getta le membra in
uno dei sozzi cassonetti di Roma: credeva passasse la nettezza urbana, ma
poiché ormai è noto in tutto il mondo che a Roma c’è proprio questo problema, e
così quella sera il camioncino del pattume non passa, e dà l’allarme una
ragazzina Rom che rovistava dentro (e qui ritorna la questione Rom). Una
telecamera aveva già ripreso il numero di targa. Lui alla notizia del
ritrovamento si finge disperato, poi, dinanzi alle prove schiaccianti, dopo
dieci ore di pressing degl’inquirenti,
confessa questo fratricidio. Anziché
esserle grato, la odiava: sfogava da dieci anni contro di lei le proprie
frustrazioni, e questa povera donna ha sbagliato a sentirsi in dovere di
mantenere quest’individuo solo perché suo familiare di sangue.
(Altri due casi
di diabolica ingratitudine e di parenti ridotte a bancomat che vengono
aggredite quando dicono di No sono successi uno a Casale Monferrato e
l’altro a Roma.
Nel primo caso, la
48enne Elena, di origine romena, è
stata accoltellata al cuore dal suo ex, albanese coetaneo, senza lavoro e dipendente dal videopoker e dall’alcol.
Benché l’avesse lasciato, impietosita gli aveva offerto dei lavoretti domestici
a pagamento, ma quando lei l’ha rimproverato perché non pagava neanche le
bollette, nel suo narcisismo mortifero l’omaccio l’ha voluta zittire anche lui.
Sono arrivati i vicini vigili che avevano udito le grida e lui si è consegnato.
Nel secondo caso, un 35enne tossicodipendente e con
precedenti, si è recato dall’anziana nonna per farsi dare i soldi per comprare
droghe, e al rifiuto di lei, ha tentato di rapinarla, mettendo a soqquadro come
un ladro l’appartamento, dopodiché l’ha afferrata pei capelli, l’ha presa a
pugni al volto, l’ha scaraventata sul letto, ha tentato di ucciderla premendole
un cuscino in faccia, e le ha gettato sul volto la pentola di minestrone
bollente ustionandole il viso, dopodiché l’ha ferita al collo col frammento di
uno dei piatti fatti in mille pezzi. L’uomo aveva divieto d’avvicinamento nei
confronti della nonna, ed era stato pluridenunciato per maltrattamenti in
famiglia.)
In Italia c’è ancora un venti per cento di donne che non ha
un proprio conto corrente, e non è quindi libera economicamente, sicché il ricatto
economico di dipendenza è d’impedimento a relazioni davvero libere e quindi
felici. E come ha dimostrato un sociologo dell’Università di Torino nel suo
libro “Quello che i maschi non fanno”, sono ancora pochissimi gl’italiani che
si degnano di apparecchiare la tavola: una barbarie.
Io credo che alle
famiglie serva una rivoluzione conservatrice: una rivoluzione, cioè,
dall’interno, in cui si distrugga da
dentro una serie di atteggiamenti iniqui, appresi (sia dai maschi quanto dalle
femmine) dalle madri maschiliste, salvando così l’istituzione matrimoniale da
questo senso di oppressione per le donne sobbarcate di troppi còmpiti.
Oltre a Nicoletta, un’altra
donna è finita nel cassonetto quest’estate: nel centro di Napoli. Si tratta
di una donna trans, Simo (così si faceva
chiamare ambiguamente perché si trovava nel percorso di mutamento in cui tutti
noi dobbiamo essere solidali accompagnando queste persone). Un’attivista si
dice sua “amica” eppure non sa nulla di cosa gli sia capitato.
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SINDACI delle
“CITTA’ del DIVERTIMENTO” affatto PENTITI di NON AVER PROTETTO I CITTADINI
E un’altra ragazza trans, una prostituta che viene dal Perù
e che la società e lo Stato non si occupano d’inserire in qualche lavoro
normale, è stata stuprata da una gang
di quattro criminali minorenni pluripregiudicati e dediti all’odioso spaccio di
droga, in una spiaggia di Rimini ove è vigente ma mai applicato (dice
candidamente il bagnino) il divieto d’accesso, gli stessi che poco prima,
affamati di violenza sessuale, han stuprato una polacca: l’han trascinata in
acqua, tutta sporca di sabbia, per poter abusare di lei. Si noti che lo stesso
guardaspiagge d’origine straniera “sorride” al Corriere mentre riferisce candidamente che le regole sono solo
sulla carta. E le autorità di Rimini non hanno minimamente avuto nulla da dire
sul diffuso spaccio di droghe che è emerso semplicemente intervistando i
ragazzetti che frequentando questi lidi così pericolosi. Lo stesso
atteggiamento narcisistico della sindaca di Barcellona, la quale ha dichiarato
di non essersi pentita di non aver seguìto le linee-guida del governo e di non
aver protetto almeno da qualche parte le Ramblas. Un fatalismo, quello dei sindaci delle due città del
divertimento, tipicamente mediterraneo, insomma.
(Questi casi dovrebbero essere al centro di una battaglia
di prevenzione assoluta contro la così dilagante cultura della droga, incluse
le droghe cosiddette “leggere”. Per esempio, gli stupri contro ragazze che si sono drogate o che sono state
drogate: i loro padri e le loro madri dovrebbero creargli una sana paura con
storie così reali: cara figlia, tieni conto che, se ti droghi, c’è sempre l’ulteriore
rischio che qualche malintenzionato –magari drogato pure lui- abusi di te, che
magari non avrai la forza fisica di opporti a causa del tuo stato alterato.)
****
ESEMPIO di
ROVESCIAMENTO di una SOCIETA’ CIVILE
PER IL SINDACO
del PAESINO del NAPOLETANO lo STUPRO di GRUPPO
E’ UNA BAMBINATA:
RAGAZZINA EMIGRA CON LA FAMIGLIA IN GERMANIA
Torniamo nella difficile
provincia di Napoli, ove sono state perpetrate altre due violenze contro le
donne: a Pimonte, una ragazzina
quindicenne è stata violentata da un branco di undici ragazzacci violentatori, incluso quello che viene chiamato puntualmente dai “media”
il “fidanzatino”: proprio come successe a Carolina Picchio a Novara che
venne anche ripresa coi videofonini e bullizzata su Facebook.
Ebbene, tre di
questi criminali sono in giro a piede libero per le strade di questo paesino,
mine vaganti che possono compiere atti violenti in varie altre forme.
Liberi o no,
condannati o meno, restano dei criminali. (Non è che se uno è minorenne è meno
criminale ciò che fa. Il crimine è sempre tale.)
La ragazzina,
perlopiù, non sente alcun sostegno psicologico del servizio pubblico: nessuno
che vada a sentire come stia. Si ritorna
quindi alla dinamica (non rara) per cui la vittima non viene sostenuta mentre i
criminali ricevono comprensione: il rovesciamento di
una società civile.
E, visto che ogni
giorno può imbattersi in questi criminali che l’hanno violentata, la sua famiglia
prende atto e se ne va in Germania (già meta sicura di tante famiglie di buona
volontà del nostro Sud perché è un Paese che offre molte chance di lavoro e ha
poca disoccupazione).
L’esempio di questa storia mostra il
fallimento totale non solo di tre famiglie ma di un’intera comunità.
E il sindaco di
destra del paesino che fa? Non si vergogna di non aver integrato in società la
ragazzina? No! Pensa a reintegrare bene i criminali. Ed interviene solo quando
ha i microfoni dei giornalisti puntati, definendo così la violenza ai media:
“una bambinata”. Come dire: cose che fanno i bambini (cattivi, si spera,
comunque). A parte che si tratta di violenze sessuali da parte di ragazzini (e
non di bamboccioni), ma è una frase immorale. Sono certo d’indovinare che questo
deficiente è amico di almeno una delle famiglie che hanno prodotto questi
criminali. Gli amorali fanno così, pensano: “è un mio amico, mi ha fatto dei
favori, glieli devo ricambiare”, non pensano: “e se fosse successo a mia
nipote? Vorrei anch’io non solo giustizia ma anche solidarietà civile”, per
esempio.
Poi, su “Repubblica”, il sindaco in questione
concede un’intervista ove stavolta, dopo aver assolto questi criminali, assolve
sé stesso, adducendo a mò di attenuante il fatto di essere stato un insegnante.
Ma alle persone normali questa sua pregressa esperienza dovrebbe apparire semmai
un’aggravante.
Insomma, l’ex
professore non ha minimamente compreso perché in tanti si siano indignati alle
sue parole che costituiscono un ennesimo trauma psicologico alla vittima e non
fa che dare una conferma involontaria del livello culturale di quel paesino che
non ha solidarizzato con lei.
SENZA
PUNIZIONI NON C’E’ EDUCAZIONE ALLA GIUSTIZIA
Questa mentalità
perdonista esiste anche a sinistra fra i politici di basso livello del nostro
Paese: pensate che la legge cosiddetta anti-cyber bullismo è stata votata su
proposta proprio di un’ex insegnante di una coetanea di questa succitata ragazzina,
Carolina, che si suicidò a Novara in sèguito a quella violenza sessuale di
gruppo filmata, diffusa e oggetto d’ilarità. Diventata pretestuosamente
senatrice del Partito Democratico, solo dopo quattr’anni questa sconosciuta ha
portato a termine il proprio impegno (i suoi compagni di partito avevano messo
in primo piano la riforma della Costituzione che però non hanno dato a bere
agl’italiani che hanno sonoramente votato No!). La leggina consiste
praticamente nell’obbligare le autorità competenti a rimuovere entro
quarantott’ore i contenuti diffusi e diffamanti. Non è prevista nessuna
punizione, solo una strigliatina d’orecchie dal questore al nostro “bambino” in
questione che ha fatto la sua “bambinata”.
Se si continua a
tollerare che persino questi docenti (che in realtà, non ritenendo necessarie
le punizioni, sono dei cattivi maestri) considerino bambinate gli atti di
cosiddetto bullismo (altro termine assai discutibile, che comprende vari reati,
fra cui le molestie sessuali e l’incitamento alle molestie sessuali e peggio),
non si contribuisce a far maturare alcun avanzamento culturale in certe sacche
del nostro Paese. E ci toccherà sentire ancora frasi così (“una bambinata!”),
da gente che, senza capire realmente l’enormità di ciò che va blaterando, dà
l’assoluzione ai minori avviati sulla strada della criminalità e della
violenza, anche domestica. Se non sono stato punito quando bullizzavo i miei
compagni a scuola, perché non dovrei fare il bulletto con la “mia donna” nella
mia proprietà?
A proposito d’istruzione, di educazione, e
di punizioni, giorni fa ho sentito la grottesca ministra della Pubblica Distruzione
(proprio così: non è un refuso) che criticava quel preside creativo che ha
punito alcuni alunni ed alunne facendogli zappare la terra in cortile: “Avrebbe
dovuto concordare coi genitori…”. Questa donna è il simbolo di una deriva
etica, di una scuola distrutta dai ministri della pubblica distruzione, che
vìola persino l’autonomia dei propri presidi. (Dalla
ministra arrivano sempre pessime notizie: presto le superiori saranno di soli
quattr’anni, questo ha detto, ma nessun cenno alla qualità e al rinnovo dei
programmi, figuriamoci. Ennesima riforma della sinistra regressista italiana
che aumenterà solo il numero dei disoccupati, come la riforma triennale di
Berlinguer il quale si diceva certo di aumentare il numero degli occupati! Come
diceva il generale von Moltke, i più pericolosi sono proprio gli stupidi
volenterosi! )
Restiamo in
provincia di Napoli: a Mugnano, una 24enne di Melito,
Alessandra, è andata a chiedere al suo
ex, un coetaneo, che l’aveva mollata, di rimettersi insieme, cosa che di
solito succede all’inverso. In un’icastica scena che rappresenta il legame
malato anche da parte di donne che negando l’evidenza non riescono a lasciare
il partner che ha rivelato la sua
vera natura violenta, è morta in
ospedale dopo le lesioni subite nel restare aggrappata allo sportello dell’auto
mentre questo mostro di narcisismo perverso la trascinava così, come in un film
d’azione, lungo la strada, probabilmente rompendole l’osso del collo. Lui
sostiene di non essersi accorto che lei era attaccata alla macchina, una
versione incredibile proprio come quella della mammina che sostiene che il
figlioletto si sia introdotto da solo in auto.
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QUELLE DONNE
AMATE DA TUTTI I CONOSCENTI, FUORCHE’ DAL PARTNER
IL GIUSTO
MESSAGGIO PER I NOSTRI GIOVANI:
E’ LA CREATIVITA’,
NON L’ATTACCAMENTO MORBOSO, LA VERA FELICITA’
Dovremmo avere l’autorevolezza d’indicare senza dubbio, a
questi nostri ragazzi e ragazze, che la
fonte primaria ove troveranno la loro felicità risiede nella loro creatività (che ha sempre
infinite forme), che si potranno recar dietro ovunque come proprio
indistruttibile bagaglio personale in giro per il mondo (mio chiodo-fisso, vedi
i miei articoli: “Il Coraggio Creativo è
la Risposta Radicale alla Noia dei Giovani” http://lelejandon.blogspot.it/2015/03/il-coraggio-creativo-e-la-risposta.html,
e “Il Segreto della Felicità è la
Creatività, Essenza dell’Umanità” http://lelejandon.blogspot.it/2013/12/il-segreto-della-felicita-e-la.html
).
La creatività, dunque, e non l’attaccamento così fatale alla prima persona di cui s’invaghiscono:
quello che la psicanalista milanese Enrichetta Buchli ha chiamato nel suo libro
che speriamo presto ristampato “il mito
dell’amore fatale”. Dobbiamo
veramente sfatare quest’assurdo mito del bel tenebroso, in
cui così tante donne cascano: l’uomo
misterioso o timido o difficile che esse vorrebbero salvare e cambiare e
redimere come un figlio. Alle ragazze io dico: diffidate da tutti quelli che
paiono “timidi” e che non vi lasciano libere di continuare a vedere i vostri
buoni amici! E a scuola, le professoresse (anziché soffermarsi sull’amore
cortese e altre stupide astrazioni cattoliche fuori dalla realtà) incomincino a
far raccogliere alle allieve gli articoli di queste cronache nere per mostrare anche questa forma di cosiddetto
“amore” che va riconosciuta invece come il suo contrario, l’odio. La cosa
che più sconcerta, infatti, è che queste ragazze che vengono uccise come da
copione sempre in tragedie preannunciate, è che sono amate da tutti (almeno
così dicono poi i conoscenti, i parenti e gli “amici” sedicenti) fuorché da un’unica
persona, che guarda caso è sempre colui che dovrebbe amarla di più, e cioè il
compagno!
Io credo invece
che se noi amiamo veramente queste ragazze, queste donne, dobbiamo dimostrarlo
e fare qualcosa, fare rete intorno a loro,
come un muro di protezione, perché è da
qui che si misura una grande società civile sana e si distingue da una società
che si suicida in nome della “privacy”
o del mito dell’ “indipendenza”. Nessuno di noi
è indipendente: siamo tutti immersi in una rete di relazioni, e nessuno è autosufficiente perché non è nella nostra
natura umana.
In tutte le civiltà, ad avvertire i bambini e le bambine dei pericoli dei mali del mondo ci sono sempre state le fiabe, i
racconti delle nonne e delle madri (presso i Greci antichi le favole di Esopo e l'Odissea), oggi
chi propina solo cartoni animati e non ha dieci minuti di tempo per leggere una
favola non prepara il proprio figlio ai vari pericoli della vita.
****
IL PERDONO di chi non si pente NON è mai UN BENE
Dobbiamo anche indagare in che misura la perversione del
concetto di perdono che è così diffusa nel particolarismo cattolico italiano,
possa incidere sulla scelta (che è una non-scelta) di perdonare applicando
quella misericordia che addirittura i leader cattolici invitano ad applicare
persino a chi commette i crimini peggiori: l’apoftegma attribuito all’ebreo
Gesù di Nazaret mi pare insufficiente teologicamente per questa cattiva teologia che trasforma il perdono
(che l’ebraismo applica solo a chi si pente, a chi fa un’operazione di teshuvà) in perdonismo, che fa male tanto a chi è vittima anche
indirettamente tanto a chi ha commesso l’ingiustizia. Invece anche Gesù accenna
a casi in cui non si perdona (cosa mai ricordata dai cattolici), e già
Aristotele scrisse che “quelli che non sono inclini al pentimento sono incurabili”: il filosofo greco aveva già individuato i sociopatici
inguaribili! E la psicanalista Alice Miller ha mostrato quanto faccia male (e
non bene, come dicono appunto i cattolici) il perdono: non a caso, lei
proveniva da una famiglia ebraica, e l’ebraismo crede nella giustizia (quindi
nel giusto perdono, eventualmente), non nel perdono (confuso con carità e
misericordia).
Vorrei che qualche giornalista, per esempio, veramente
femminista, si camuffasse da donna malmenata dal marito e si recasse nei
confessionali per verificare se i preti dei paesini dicano l’unica cosa giusta
da fare, cioè chiedere il divorzio e denunciare. L’ossessivo attaccamento ad un
altro presunto apoftegma di Gesù, “ciò che Dio ha unito, nessuno lo separi”, che
è stato preso come un No assoluto al divorzio (che è una barbarie che abbiamo
superato grazie al buon senso della democrazia nel 1974 con un referendum)
teoricamente può provocare come epifenomeno anche quest’ulteriore resistenza
delle donne maltrattate a divorziare: non solo bizzarra ma anche poco umana una
religione incapace di cogliere questo possibile nesso e suggerire un’etica
conseguente. I giornalisti borghesi sono talmente fuori dalla realtà popolare
che non immaginano neanche che in certi contesti sociali del nostro Paese ci
siano persone cattoliche che si facciano simili scrupoli che diventano la loro
tomba. Del resto, loro, nei paesini della provincia italiana si recano solo in
occasione degli omicidi.
****
In Sicilia, un bimbo di nove anni ha visto il “padre” 36enne tentare
di uccidere sua madre, la 31enne Laura, gettandole addosso del liquido
infiammabile. Poi, ha detto che si è trattato di un incidente: proprio come, un
anno fa qui a Milano, un egiziano musulmano 38enne (irregolare e senza permesso), che ha
gettato addosso alla compagna marocchina 46enne, incinta, della benzina eppoi
ha acceso una sigaretta, anche lui parlando di un incidente. La odiava perché
era lei quella che portava a casa i soldi, lui era disoccupato. (Già cinque
anni prima, questa signora benvoluta da tutti fuorché questo “marito” per le botte di lui aveva abortito un bimbo che recava in
grembo: chiaro che questa donna ha “perdonato” o non ha trovato subito sostegno
morale e culturale per divorziare.)
Anche qui una questione di soldi: Laura gli aveva negato i
miseri venti euro raccolti umiliandosi a chiedere l’elemosina fuori dalle
chiese. Nei diciotto giorni d’agonia prima che lei morisse, approfittando del
fatto che lei non si svegliava e non poteva testimoniare indicando lui come
l’aggressore, questo criminale ordinava al figlioletto di non rispondere a
nessuno: spesso vediamo come il male è
stupido, e quanto stupidamente questi criminali, che non sono né animali
né umani, checché ne predichino gli “umanisti”
radicali (o radical-chic) o i
religiosi (in realtà narcisisti che si vantano di esser capaci di trovare
“l’umanità” nei malvagi), ma disumani
disanimati, bestie senz’anima, si tradiscano
perché incapaci di fare tanto il bene quanto il male. (Mi torna in mentre la diabolica macchinazione, sei anni
fa a Crema, del primario oculista dal volto gelido da serial killer qual è (condannato due anni fa all’ergastolo) che
aveva inscenato il figlicidio-suicidio della ex amante Claudia e della loro
figlioletta di due anni, Livia, riconosciuta suo malgrado, manomettendo quattro
bombole dei fornelletti del gas da campeggio (e somministrandogli nei piatti
durante l’ultima cena gocce del sonnifero Xanax): voleva eliminare questa voce
di spesa perché era una delle quattro figlie avute da donne diverse e al di
fuori dei suoi piani di relazioni sessuali disimpegnate (la donna aveva detto
no all’aborto che voleva imporre lui). Fu l’ultima lettera di lei, ove era
decisa a che lui riconoscesse pubblicamente la paternità di questa bambina, che
non meritava di restare nel segreto, a scatenare il piano omicida.)
Per coprire le botte (quasi all’ordine del giorno) Laura
indossava gli occhialoni da sole anche quando il sole non c’era, nemmeno la suocera ha trovato quel coraggio
materno per denunciare suo figlio e proteggere il nipote: incapace d’insegnare
a suo figlio come un vero uomo ed un vero essere umano tratta una donna, non è stata
nemmeno capace di redimersi salvando la nuora da quel femminicidio annunciato, ed è il personaggio più
squallido e fuori dal tempo di questa vicenda.
In alcune sacche del Paese il familismo amorale descritto dal sociologo americano nel 1958 è ancora all'opera: un cancro che distrugge la società civile. |
Ha prevalso quel familismo amorale che proprio nel nostro Sud il
sociologo americano Edward Banfield già descriveva nel suo classico del 1958 “Le basi morali di una società arretrata”, che abbiamo citato in occasione del nostro cinetalk sullo
stupendo capolavoro “Poetry” (il più
bel film che io abbia mai visto). Ed anche in questo caso di Laura i vicini
sapevano ma tacevano. Una storia, questa, che se non ci fosse l’indicazione
geografica ci parrebbe pakistana, ed invece è avvenuta nei confini del nostro
Stato!
Come diceva il Premio Nobel Dario Fo, nel sostenere
Antonella Penati, nel video che abbiamo proiettato al cinetalk sul film “Babycall”, una società sana costruisce una rete di solidarietà intorno alla madri:
una società ove nemmeno nella famiglia stessa le donne sono solidali fra loro è
destinata ad essere una società malata di famiglie malate, di cellule
ammalate. Un Paese è fatto dalle Famiglie, dalla Società Civile e dallo
Stato: ebbene, un Paese ove, oltre allo Stato e alle famiglie anche la società
civile è latitante, è destinato alla disgregazione sociale cioè
all’autodistruzione culturale.
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UNA SOCIETA’ COESA DEVE RAGGIUNGERE LA FRATELLANZA FRA I GENERI
Trovando rifugio
nei centri antiviolenza autogestiti da altre donne, esse possono riscoprire
ideali di sorellanza come quella delle pioniere suffragette inglesi di cui Vi
ho mostrato il film e raccontato la storia (http://lelejandon.blogspot.it/2016/10/la-perseveranza-e-lintegrita-morale.html ), eppure io continuo a vedere la giusta via
verso la giustizia fra i sessi in una società grande e forte in una più
generale fratellanza fra i generi.
Questa fratellanza
si costruisce sin da bambini, non solo quando si lasciano maschi e femmine
giocare insieme, ma anche quando li si incoraggia a farlo, e talvolta anche li
si costringe.
Vedo invece che la società civile è piena
di isolette, di pseudo creativi che creano ghetti, come i gruppetti di donne
che si rivolgono esclusivamente alle donne, ed escludono non solo gli uomini ma
anche le donne transessuali: nel loro ideologico femminismo, e nella loro
ignoranza della femminilità delle persone trans, diventano un club esclusivo e non si rendono conto
che la liberazione di queste persone è la nuova tappa verso una società davvero
liberata. Quelle
non sono femministe, sono femminucce. Penso anche ai festival di “cinema gay” o di “teatro omosessuale” che
con grande miopia e grandi finanziamenti pubblici attirano esclusivamente
persone gay, e quindi fanno perdere l’antica funzione del Teatro, e dunque
del Cinema, e cioè espandere l’immaginazione morale verso il nostro prossimo che però crediamo, a torto, così lontano.
Noi de “Il Cinema e i Diritti” abbiamo sempre concepito e realizzato eventi
universali, perché l’idea dell’esclusività e/o del ghetto non sviluppa la
società, ma la conserva in una maniera sbagliata e addirittura regressista.
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PLURIDENUNCIATI,
MA NON ATTENZIONATI
MALATI PERICOLOSI NON CURATI A DOVERE DAGLI
PSICHIATRI PUBBLICI
IL CASO, POI, DELLO PSICHIATRA CRIMINOLOGO CHE HA UCCISO IL FRATELLO PER DENARO
IL CASO, POI, DELLO PSICHIATRA CRIMINOLOGO CHE HA UCCISO IL FRATELLO PER DENARO
Analogie con la storia di Antonella ha anche la storia che viene da Foggia: un 36enne pregiudicato e già pluridenunciato per violenza domestica dall’ex moglie, le ha ucciso la figlia per vendetta. (I Nonni, presso cui la ragazzina era affidata dopo un periodo in comunità, non immaginavano che l’adolescente potesse essere in pericolo. L’uomo già un anno fa aveva puntato un coltello alla gola proprio della ragazzina.)
All’ex il giorno
prima aveva mandato un messaggio (“sono pronto”). Al mattino, ha braccato alla
fermata del bus per la scuola Nicolina, la figlia 15enne di lei: le ha intimato
di dirle dove si trovasse sua madre, e al diniego della ragazzina, le ha
sparato in volto (come solo può fare un sociopatico giacché, come nota il
filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, la visione del volto del nostro prossimo ci
richiama questo comandamento inscritto nel nostro cuore e cioè “Non uccidere
l’innocente!”), poco sopra l’occhio sinistro, colpendo quindi il cervello.
Dopodiché, come l’assassino di Federico Barakat, si è ucciso. L’avvocato dei genitori di Nicolina ha
dichiarato: “Lo
Stato non ha saputo tutelare una bambina di 15 anni”, per esempio
assicurandosi che anche lei fosse al sicuro.
E proprio come
quella di Antonella Penati, è una storia di un’altra madre inascoltata, quella
di Noemi: la 16enne di Specchia (Lecce)
picchiata, poi accoltellata al collo eppoi sepolta sotto un mucchio di sassi
(secondo un disegno premeditato, come testimoniato da un “amico” di lui) dal
partner violento 17enne e tossicodipendente da “droghe leggere”, possessivo e
geloso, pluridenunciato non da lei
ma dalla mamma di lei. Mamma che, separata dal marito, curiosamente non viveva
con lei. La signora aveva anche portato sua figlia a denunciare quel
“fidanzatino che suo marito addirittura aveva fatto venire a vivere in casa con
Noemi: “gli ho comprato sigarette, vestìti, medicine”. Insomma qui siamo
persino oltre la parabola del figliuol prodigo: la storia attribuita a Gesù che
indica come un buon padre quello che addirittura perdona in anticipo il figlio
senz’attendere che questi si dichiari pentito e gli fa subito una gran festa
esagerata. Una parabola diseducativa che si presta ad un’educazione
disfunzionale, perdonista, che non responsabilizza, ove c’è l’amore ma non la
giustizia e la responsabilità.
Le madri hanno l’intuito materno e vanno ascoltate: la
mamma di Noemi, vedendo sua figlia perdere l’anno scolastico perché si era
letteralmente perduta con questa cattiva compagnia (che le faceva pure il vuoto
attorno non volendo farle vedere le amiche), si era rivolta a chi aveva il
preciso còmpito di proteggere sua figlia: ma nessuno si è preso la
responsabilità di dargli il divieto di avvicinamento.
E proprio come nel caso di Antonella Penati (e del film “Babycall”), anche questo è un caso di false promesse degli assistenti sociali: “Mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi a fare un piano rieducativo per mia figlia…e invece non è successo. Volevo soltanto che ci aiutassero” (così al “Corriere”). Ha fatto bene il ministro Orlando a mandare gl’ispettori laggiù parlando di “abnormità nell’attività” (o dovremmo dire inattività e passività) “dei magistrati”: alcuni femminicidi sono lasciàti succedere proprio perché i magistrati non han fatto l’unica cosa giusta e han dimostrato di non aver la psicologia né la conoscenza della psicologia per capire che si è dinanzi ad un impenitente manipolatore. Non solo il “fidanzatino” non ha smesso di picchiarla, ma l’ha uccisa dopo averla picchiata (come ha rivelato l’autopsia, ma non lui, che non è assolutamente degno di alcuna fiducia).
E proprio come nel caso di Antonella Penati (e del film “Babycall”), anche questo è un caso di false promesse degli assistenti sociali: “Mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi a fare un piano rieducativo per mia figlia…e invece non è successo. Volevo soltanto che ci aiutassero” (così al “Corriere”). Ha fatto bene il ministro Orlando a mandare gl’ispettori laggiù parlando di “abnormità nell’attività” (o dovremmo dire inattività e passività) “dei magistrati”: alcuni femminicidi sono lasciàti succedere proprio perché i magistrati non han fatto l’unica cosa giusta e han dimostrato di non aver la psicologia né la conoscenza della psicologia per capire che si è dinanzi ad un impenitente manipolatore. Non solo il “fidanzatino” non ha smesso di picchiarla, ma l’ha uccisa dopo averla picchiata (come ha rivelato l’autopsia, ma non lui, che non è assolutamente degno di alcuna fiducia).
Il ragazzo aveva collezionato tre TSO negli ultimi sei mesi
ed era in cura da uno psichiatra pubblico dell’Asl. L’Italia ha tassi di
ricoveri per TSO fra i più bassi d’Europa. Noi de Il Cinema e i Diritti abbiamo
denunciato i casi di TSO finiti con l’uccisione della persona sofferente
psichica (in tutti i casi, non pericolosa ma capricciosa nel prendere gli
psicofarmaci) perché fatti da personale incompetente. Ci sono poi casi come
quello di questo pericoloso criminale che è stato visto solo come malato
psichico ma non quello che era in realtà: un criminale.
Dapprima l’assassino (perché si chiama “assassino”, non
“fidanzatino”!) ha detto: “Ho sbagliato, potevo uccidermi io”, per creare
compassione. Dopodiché ha ben presto mutato versione, con una controaccusa
contro la vittima che non può più difendersi da tali accuse: “Cari genitori, ho
ucciso per amore vostro, lei voleva che ammazzassi voi”. Deliri di un criminale
che, ancorché giovanissimo, ha già tutte le caratteristiche del manipolatore e
mentitore seriale indegno di alcuna fiducia. Anche la sorella di Noemi ha detto
proprio che era un manipolatore. L’ha capito lei giovanissima ma non l’ha
capito un magistrato o una magistrata od un carabiniere che immaginiamo abbiano
maturato una certa esperienza psicologica! Insomma,
mezza famiglia inascoltata, una tragedia che poteva essere evitata, una giovane
vita che poteva essere salvata.
Ed anche qui, assieme all’appello inascoltato della
tragedia annunciata, torna il familismo amorale: il padre di questo criminale,
quando ancora Noemi era data per scomparsa e non si sapeva che fine avesse
fatto, ha contraccusato la ragazza, un “cancro” per il figlio. Ferito nel suo
stupido orgoglio (quando chiaramente non dovrebbe essere orgoglioso di un bel
niente), contrattaccava chi accusava suo figlio che lui palesemente non era
stato capace di educare: tipico di questa risma di genitori, gli stessi che
mettono i bastoni fra le ruote a tantissimi insegnanti.
Il post condiviso dalla 15enne Noemi, uccisa da un 17enne vicino Lecce. |
Ultimo ma non meno importante aspetto da rilevare, anche qui c’è una mancanza dei carabinieri
locali che, in un tranquillo
paesino di così piccole dimensioni, potevano benissimo attenzionare un ragazzo
con quel “curriculum”. E invece
hanno risposto (da tipici burocrati privi di umanità) a quella povera madre che
gli schiaffi non
sono un reato grave e lo lasciavano libero di guidare l’auto senza
patente!
Noemi aveva provato a lanciare maldestramente il proprio
grido d'aiuto su Facebook, questa specie di diario urlato della nostra contemporaneità,
condividendo un’elencazione molto socratica ed importante di cosa “non è
amore”: “non è amore se ti controlla; non è amore se ti picchia” e così via.
Concetti corretti, che evidentemente condivideva
a
livello cognitivo, eppure non le riusciva di staccarsi
da quel partner a livello emotivo: il
suo non era il sentimento creativo dell’amore bensì una malattia, la dipendenza
emotiva.
Una scena dal film franco-israeliano "Libere, disobbedienti, innamorate". |
E qui torniamo alle false amicizie, al falso concetto di
amicizia. E’ un legame talmente importante, l’amicizia, che secondo Platone il
filosofo Socrate, fondatore della filosofia etica dell’Occidente, aveva proprio
impostato su questa domanda la propria ricerca. Ed uno dei primissimi suoi
dialoghi giovanili, il “Liside”, che
conosco bene perché ci ho dedicato la mia prima tesi di laurea a Padova, si
chiede proprio chi sia il vero amico. Già Aristotele, nella parte dell’Etica Nicomachea ove tratta del valore
dell’amicizia e delle sue varie forme (libro IX, 1171 a), nota che “il numero
degli amici è compreso entro certi limiti, e certamente saranno al massimo
tanti con quanti è possibile vivere insieme (giacché questa si ritiene la cosa
più tipica dell’amicizia)”. Nota Aristotele: gli amici giocano assieme, si
divertono assieme, discutono assieme, bevono assieme. Tutte cose che sono
negate alle partner di questi accentratori manipolatori violenti che le
vogliono tutte per sé a causa del loro narcisismo perverso. Ebbene, le “amiche” di
Noemi ora dicono che lui la picchiava: perché non sono intervenute come han
fatto le due ragazze coinquiline della ragazza violentata dall’ipocrita
fidanzato del recente film israeliano “Libere,
disobbedienti, innamorate”?
Perché non sono
state vere amiche.
In questo giuoco
delle parti nei “social” (che di sociale troppo spesso non hanno niente, anzi ne
sono la negazione), ognuno ha la sua vita privata (in greco antico idiotés, cioè idiota, incapace di stare
in società, di essere zoòn politikón,
essere sociale) e spiattella, oltreché i piatti che mangia (nemmeno che crea!)
patetiche foto di sé stesso in momenti che teoricamente non dovrebbero
importare a nessuno se non alla risma di ficcanaso che acquista le riviste che
ahinoi troviamo dalle volgari shampiste.
Dovremmo spiegare
ai nostri ragazzi che concedere l’amicizia su un social network non significa essere amichevoli. Anche gli umanisti
del Quattro-Cinquecento si chiedevano l’amicizia (per lettera, argomentando,
all’epoca si era ancora Homo Sapiens,
non Homo Videns) ma era comunque
l’ammissione in una cerchia, cioè un circolo: c’era un reale, comune interesse
attorno a dei temi comuni, delle letture comuni e dei valori umani comuni
(appunto, le humanae litterae). Oggi
i sondaggi ci dicono che i libri letti dai nostri ragazzi sono quelli
edificanti e banali propinati dalle professoresse a scuola: essendo i docenti
incapaci d’insegnare il piacere della lettura, e illiberali nel loro non
lasciar libertà di scelta fra i generi letterari, il risultato è questo, che i
nostri giovani non hanno più nulla da dirsi, nessun libro europeo intorno a cui
parlare.
"I giovani americani d'oggi si vedono meno con gli amici" |
L’americana Jean M. Twenge,
psicologa della San Diego University, nel suo bestseller “iGen”, non uscito in Italia (ove invece due giornalisti
ci propinano rassicuranti libri populisti a favore di questa generazione
Internet), nella lunga elencazione delle deficienze prodotte dall’uso di Internet che è perlopiù un abuso
generalizzato a tutti i livelli, cita
proprio questo: rispetto al 2000, gli
adolescenti che s’incontrano ogni giorno coi loro coetanei sono diminuiti del
40%. E oggi sono pure molti meno quei giovanissimi che escono da soli.
Questi sono i dati del suo Paese, gli Stati Uniti, ma mi pare evidente che qui
non sia molto diversa la condizione giovanile di solitudine. Inoltre, sono
sempre meno gli adolescenti che si trovano un lavoro estivo o part time. I giovani d’oggi sono più
infelici e depressi e incapaci, conclude la scienziata.
Proprio oggi che siamo così “connessi”
(ma solo via etere e comunque mai così lontani dalla telepatia!) ci sentiamo più
soli che mai, come dice il claim
del film “Disconnect” che ho
presentato insieme ad Antonella Penati alla Casa delle Associazioni sugli abusi
di Internet (tornerò con una nuova conferenza, restate aggiornati: www.ilcinemaeidiritti.it ).
Io credo che davvero questi oggetti-di-culto
possano diventare diabolici nel senso etimologico del termine, cioè divisivi:
ci dividono dalla realtà, dal principio di realtà e dai nostri vicini. Non ci
avvicinano ma ci allontanano persino dalla nostra umanità, ci
rendono animali che abusano delle mani e diventano deficienti in varie altre
funzioni che sono specifiche della nostra specie Homo Sapiens.
Se non vogliamo che i nostri giovani vengano su completamente drogati (di droghe e/o di Internet) e privi di principio di realtà,
dobbiamo assolutamente riscoprire tutte le varie attività che creano emozioni e
sentimenti di fratellanza, come fare picnic
insieme, cantando tutti insieme con una chitarra, il karaoke come fanno gli estoni nei loro simpaticissimi bar, e, se serve, anche
sequestrare questi dannati cellulari a questi nostri ragazzi:
mettergli in mano una chitarra, un pallone, un libro. Coloro che s’aggrappano
alle prime cotte sono giovani che non hanno mai scoperto le vere gioie della
vita: la creatività, lo spirito di squadra.
La psicologa americana autrice di "iGen", saggio-choc inedito in Italia |
Mi càpita di vedere ogni giorno
esempi di quella sfiducia che è alla base dell’opposto della fratellanza:
persone respingenti che nei cinema, quando gli dai un dépliant di un cineforum,
rispondono: “Io non esco mai da nessuna parte”; “Io non accetto mai niente da
nessuno”. Diffusa, poi, è la scortesia: persone che non rispondono ad un invito
indirizzato personalmente, e se rispondono ricorrono alla frase tipica milanese
“se sono a Milano, vengo” (ai milanesi non piace stare a Milano nel weekend in
quanto odiano la loro stessa città). Che son poi, non a caso, quelle stesse
persone che seggono sempre da sole, ben distanti dalle altre. Che mai, neanche
in un viaggio di ore, scambierebbero una parola in aereo. Persone così
esistono. Ha ragione Alain de Botton quando nota che le persone profondamente
sole sono tali perché mai hanno coltivato valori sociali.
Cantare muta il nostro umore. Cantare insieme crea sentimenti di fratellanza. Un tempo ad un gruppo di giovani bastava una chitarra per godere insieme del sano divertimento. |
Un valore sociale è fare delle
cose insieme: scambiare due parole coi vicini, di casa innanzitutto. Accettare,
ogni tanto, un invito da una persona gentile, uscire se ci sono importanti
manifestazioni in cui dobbiamo far sentire all’unisono la nostra voce.
E poi dobbiamo indagare su quest’altro concetto malato che
Noemi esprime, contraddicendosi, laddove posta su Facebook la propria foto
insieme al fidanzatino: “E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per
sempre e per sempre sarà”. Dobbiamo richiamare sempre i princìpii dell’amore
buono come hanno fatto le chiese protestanti, che elencano la non violenza fra
i requisiti della relazione sana. Perché, nella misera agenda della scuola
italiana, i professori e le professoresse d’italiano non fanno leggere
Shakespeare, da cui si possono prendere anche spunti utili per l’educazione del
riconoscimento delle emozioni: far emergere, per esempio, che Otello non ama
davvero Desdemona, altrimenti non la condannerebbe a morte. Ma non dev’essere
l’insegnante a dare la sua interpretazione subito, come fanno da secoli i preti
cattolici con il loro Catechismo. Si dovrebbe fare un’opera di maieutica come
faceva Socrate. Così come i giovani non ancora completamente rincoglioniti da
Internet dovrebbero arrivare da sé ad intuire che Patroclo non era “l’amico” di
Achille, bensì il suo compagno.
La storia di Noemi ci riporta altresì alla realtà che
quando parliamo di violenze contro le donne non ci riferiamo solo alle over 30 ma, in contesti come quello di
certi paesini del Sud Italia, anche delle giovanissime adolescenti che per
retaggio culturale “romantico” sono portate a dare una tale importanza a ciò
che, a causa anche di un cattivo modello
familiare, chiamano amore e da cui non sanno emanciparsi nemmeno dinanzi alle
violenze fisiche. Senza la sensazione dell’amore indubitabile dei genitori si
rischia di non avere quel necessario amor di sé (di cui parla persino il
comandamento ebraico caro a Gesù: ama il prossimo come te stesso) e non si è
ben orientati ad un’equilibrata e libera relazione d’amore davvero reciproco.
A proposito di malati psichici del dopo Basaglia: il nostro Paese, che già destina al
sociale solo un’infima parte delle nostre abnormi tasse cui siamo sottoposti, ha la spesa per l’assistenza psichiatrica
territoriale più bassa del 10% rispetto a Paesi europei come Regno Unito,
Francia e Germania. E casi come questo lo
dimostrano.
Due psichiatri dell’ospedale di Garbagnate sono stati appena condannati (ma la pena è sospesa con la
condizionale) ad otto mesi di carcere per
non aver evitato, com’era loro preciso dovere, che una ragazza anoressica sofferente di depressione e dal disturbo
borderline di personalità, che aveva
appena tentato per la terza volta il suicidio, reiterasse l’atto un anno
fa. Le avevano detto che non avevano posto. Dopoché la giovane paziente si era
rifiutata di farsi ricoverare altrove in un luogo sconosciuto, l’avevano
dimessa, senza prescriverle il TSO: affari vostri, della vostra famiglia, era
il messaggio. Lei, tornata a casa, si è gettata dallo stesso balcone da cui l’avevano
salvata prima madre e fratello, e poi i carabinieri. Insomma, un suicidio
annunciato di cui sono corresponsabili i medici che non hanno saputo fare ciò
che era in loro potere fare per salvarla da sé stessa.
Io dico questo: le
patologie psichiatriche legate all’alimentazione (bulimia ed anoressia) si
prevengono in tempo attraverso la riscoperta piena dei pasti sociali vis à vis, a partire dall’irrinunciabile senso della famiglia che si
ritrova riunita al completo attorno alla tavola: se normalizziamo lo stile fast food solitario all’americana per
cui ciascun familiare è libero di consumare brevi pasti come càpita senza cura di
questo momento di socialità e senza cultura alimentare, rischiamo di non avere
nemmeno occasione di riconoscere queste malattie difficilmente guaribili. Torniamo
a guardarci dritto negli occhi anche a tavola, non lasciamo che nessun disumano
ritmo lavorativo ci derubi anche dello spazio e del tempo per le nostre
famiglie.
Come ricorda il dottor Leonardo Mendolicchio, psichiatra nonché
psicanalista specializzato in anoressia (dirige una clinica, Villa Maralago,
ove le pazienti fanno una vita appunto di comunità), lo scorso anno sono morte tremila ragazze per le conseguenze dell’anoressia.
Non solo, questo medico denuncia che in Italia esiste un problema proprio di
accoglienza.
Altro esempio di persona non curata da chi dovrebbe
prendersene estrema cura: a Fonte di Campo (sulle colline di Ascoli Piceno,
nelle Marche), un 40enne malato psichico in cura in un centro d’igiene mentale
dell’Asur, ha ucciso come fanno i macellai coi capretti e cioè con una
coltellata alla gola, la zia 70enne che viveva con lui ed i genitori. Dice
d’aver sentito le voci di una santa che gli diceva di far così (era fedele
ascoltatore di Radio Maria che va appunto predicando molte stupide credenze da
Medioevo).
E non è
nemmeno scontato che un medico psichiatra sia egli stesso sano di mente, e che un
criminologo non sia lui stesso un criminale assassino, come dimostra il caso
avvenuto in questo caldo novembre a Massa Carrara. Un medico psichiatra 63enne,
professore di criminologia, ha premuto forte l’acceleratore ed ha investito l’odiato
fratello 59enne.
Il fratricidio è stato meditato a
lungo e ha le sue origini nell’incapacità di trovare un accordo sul futuro
della lussuosissima, storica villa che i due avevano ereditato: mentre il
curatore (l’assassino) voleva ristrutturarla, l’altro voleva vendere subito ed
incassare.
Già una volta il killer aveva tentato di assassinare il
fratello: esattamente con la stessa modalità. Ma si sa che per i ricchi si ha
particolare riguardo dacché mondo è mondo. E così finalmente ci è riuscito.
E a sua volta il fratello ucciso era
da attenzionare: infatti era stato denunciato per possesso illegale di varie
armi (una mitraglietta e tre pistole nonché, altro particolare clou, due parrucche, chiaro indizio di
un progetto di tentato fratricidio mascherato).
Insomma,
entrambi volevano uccidersi e ora uno dei due ci è riuscito: come negl’impareggiabili
gialli della geniale Agatha Christie, gira e rigira ancor oggi il
movente di tanti omicidi, oltre all’odio, è la folle ed impaziente avidità di danaro
che distrugge le famiglie.
****
PROTEGGERE LE
STRUTTURE “PROTETTE”, COME INSEGNA IL CASO di ANTONELLA e FEDERICO
Un caso successo quest’estate a Perugia ci dimostra
quanto sia di interesse collettivo il caso di Antonella Penati (per chi si
fosse perso la sua storia, che ci ha raccontato lei stessa al cinetalk “Il
Cinema e i Diritti” la ritrova qui: http://lelejandon.blogspot.it/2017/05/).
Ebbene un uomo è
entrato indisturbato al Tribunale civile con una lama di 25 cm ed ha bussato
alla porta di una giudice: si lamenta con lei per una causa che l’ha visto soccombere, poi
si chiude la porta alle spalle e la colpisce (ad una spalla). Le urla di lei
fanno scattare l’intervento dei colleghi, che dopo una colluttazione lo mettono
in fuga. Uno dei due è rimasto ferito.
Il giudice Ferdinando Ciampi, ucciso nel 2015 in tribunale a Milano. |
Due anni fa, qui a Milano, un uomo (imputato per
bancarotta fraudolenta) entrò addirittura armato di pistola ed uccise tre
persone di cui il giudice che l’avrebbe condannato, Ferdinando Ciampi, peraltro
molto stimato per la sua professionalità.
L'assassino è stato condannato al carcere a vita.
Il legale della famiglia del giudice aveva chiesto alla PM d’indagare anche “all’intera catena che avrebbe dovuto garantire sicurezza in tribunale”: richiesta respinta. Sono stati assolti i vigilantes di turno la mattina della strage, in cui restarono ferite anche altre due persone. Anche qui: nessuna responsabilità di chi aveva il dovere di proteggere la struttura pubblica. (Racconto questa storia nello stesso articolo sulla storia di Antonella e Federico: http://lelejandon.blogspot.it/2017/05/). Il paradosso è che persino quando la vittima è un giudice in questo Paese non si arriva alla piena giustizia.
Il legale della famiglia del giudice aveva chiesto alla PM d’indagare anche “all’intera catena che avrebbe dovuto garantire sicurezza in tribunale”: richiesta respinta. Sono stati assolti i vigilantes di turno la mattina della strage, in cui restarono ferite anche altre due persone. Anche qui: nessuna responsabilità di chi aveva il dovere di proteggere la struttura pubblica. (Racconto questa storia nello stesso articolo sulla storia di Antonella e Federico: http://lelejandon.blogspot.it/2017/05/). Il paradosso è che persino quando la vittima è un giudice in questo Paese non si arriva alla piena giustizia.
Che le nostre istituzioni siano ben sicure ci riguarda
tutti: il nostro Paese è deficiente in cultura della sicurezza a tutti i
livelli (ne ho accennato anche riguardo ai cyber-attacchi riguardo le aziende
pubbliche e private, all’evento sul cyber-bullismo quando ho fatto notare che
anche noi adulti spesso non siamo protetti e non ci proteggiamo).
Se i nostri tribunali non proteggono sé stessi non
proteggono nemmeno chi ci lavora (avvocati e giudici) né i cittadini che li
frequentano e possono diventare così facile teatro di faide da parte di
criminali assetati di vendetta e magari pure da parte di megalomani che
vogliono avere un momento di celebrità.
****
LA FILOSOFA: IN
CASO DI VIOLENZA, TORNARE ALLE FAMIGLIE
INTERVENTISTE
Camille Paglia, filosofa ed antropologa. |
Ad Udine, la 21enne Nadia è stata strangolata, dopo
l’ennesima lite in auto, dal partner 36enne. Lo vediamo sui giornali sorridente
in fotografia mentre accarezza un cane: era suo collega di Nadia e stavano
insieme da un anno. Lei aveva confidato al proprio padre che intendeva lasciare
quell’uomo geloso senza motivo e possessivo, e il papà aveva persino pianto
confidandosi a sua volta con un cugino sentendosi “impotente” di fronte a questo
dolore della figlia. La filosofa americana Camille Paglia,
di origini italiane e mai scontata nelle sue riflessioni, ci risveglia la
memoria, e ci ricorda i tempi in cui le famiglie
erano più interventiste e se c’era un uomo che maltrattava una donna di famiglia
arrivavano in gruppo padre, fratelli e cugini in sua protezione dandogli una
bella lezione (minacce o botte o cacciata). Oggi
assistiamo appunto alla disgregazione della famiglia, alcuni vecchi genitori
pensano che le violenze morali e fisiche non sono affari loro, e viene dunque
meno il primissimo legame di solidarietà su cui dovrebbe fondarsi la nostra
società.
Ha suscitato una sana indignazione generale (e una
petizione di protesta) la scelta del tribunale del riesame di Trieste che dopo due mesi di
domiciliari ha mandato a casa col braccialettino elettronico questo femminicida
con la seguente motivazione del giudice: il fatto che lui “si è presentato alla
polizia con il cadavere” (in realtà ha
vagato tutta la notte col cadavere: forse cercava un luogo dove nasconderlo),
ha avuto una “condotta irreprensibile” ed è “incensurato”! Non è una
barzelletta: davvero incredibili queste definizioni applicate ad un criminale: una situazione
kafkiana alla rovescia ove il colpevole è meritevole!
Emblematico il caso di Pietro Maso, che
solo ventisei anni fa organizzò con tre amici l’efferato omicidio dei propri genitori
(stufi di dargli in continuazione denaro da sperperare per andare con le
ragazze) per averne l’eredità, e che pur essendo stato condannato a trent’anni
di carcere, è stato rimesso in libertà dopo ventidue.
Un giornalista
televisivo, che in coppia con la moglie fa la peggiore televisione del Paese,
lo intervisterà.
Eppure, Maso ha
dimostrato, augurando la morte alla sorella che si era rifiutata di prestargli
del denaro, che evidentemente è rimasta la sua ossessione, di non aver affatto
mutato la sua natura di pericolosissimo sociopatico che ancora odia i familiari
per motivi di danaro.
Mi vengono in mente
quei medievali che pretendevano da un monaco famoso predicatore d’indulgenze
l’assoluzione piena senza mostrare alcun pentimento per le loro azioni: da casi
così nacque la protesta di Martin Lutero che racconteremo domenica 29 ottobre
al nostro cinetalk.
Una società che non
conosce colpe e pentimenti e punizioni non solo non evolve ma si distrugge.
****
QUEI NOSTRI
GIOVANI RESPINTI IN MALO MODO PERCHE’ GAY O NERI
La mancanza d’amore
non c’è solo nelle famiglie sfasciate ma anche a livello sociale: manca l’amore
civile, quel senso di fratellanza umana
fra sconosciuti concittadini che ci fa essere una vera società. E questa
mancanza di simpatia umana esiste perlopiù per stupidi preconcetti dovuti
all’ignoranza, cioè al rifiuto di conoscersi.
E’ stata,
ahinoi, un’estate di una lunga serie di discriminazioni contro tutta una serie
di persone giovani: gay, trans e di colore.
I gay senza figli né ipotesi di averne sono giulivi e
celebrano le proprie unioni civili chiamandole narcisisticamente “nozze”, come
i “giornalisti” (di destra e sinistra, per opposti ed egualmente ignobili
motivi): intanto, gli eroici genitori gay
non biologici (dimenticati dal movimento) restano senz’alcun diritto d’adozione
sul figlio del partner e pregano non
accadan disgrazie (si possono benissimo riproporre le eterne situazioni
alla Romeo e Giulietta, ove le famiglie dell’uno e dell’altro, che magari entrambe
disapprovano le “scelte” dei rispettivi figli, si vendicano contro i parenti
dell’altro, malato o defunto). Mentre una 57enne cantante italiana, autrice
d’insopportabili canzonette melense, che in nessun modo ha mai dato un
contributo (una parola gentile come ha fatto la sua collega Paola Turci, non
serve necessariamente un coming out)
al movimento di liberazione gay e lesbico, ora salta fuori con una volgarissima
intervista, rivelando la sua natura non tanto di donna lesbica, che tutti
sapevamo da sempre, ma di snob. In quest’intervista ha sfogato il suo odio
contro il proprio Paese dicendo di andarsene a Londra perché lì ci sono tutti i
diritti. E’ la triste storia di una
donna che è arrivata tardi in tutto nella propria vita: non solo perdendo il
treno della Storia dei diritti ma anche diventando madre a 57 anni ché tanto
lei è giovanile ed è un essere superiore alle masse volgari.
Non solo, ma i nostri giovani adolescenti gay sono sempre
più scoraggiati dal lasciarsi finalmente andare a delle tenere public displays of affection. Infatti,
sono stati denunciati una serie di episodi di coppie gay rimproverate da
stupidi bagnini ignoranti se si danno un abbraccio: del caso del 18enne e del
17enne di Caserta ha parlato anche il serissimo “London Evening Standard”. Eppure, non violano nessuna legge. E’
l’Italia che crede che due gay che camminano mano nella mano incoraggino
l’omosessualità, come se fosse, che so, una scelta d’abbigliamento, come quel
bifolco del sindaco di Viareggio che (come si lamenta svergognato dalla sua
paginetta Facebook) non è stato –giustamente- ammesso in un bel ristorante in
quanto si è presentato coi bermuda (cosa che, vuole il galateo e il buongusto, si
concede solo agli under trenta ma in
spiaggia o in giardino). (Del resto anche una preside di Rimini ha fatto
notizia perché ha vietato proprio calzoncini e capi simili nella propria
scuola, provvedimento nient’affatto scontato: infatti, abbiamo bisogno che la
scuola educhi già i ragazzi a presentarsi bene nei posti di lavoro, anche
quest’educazione ad aver cura di sé e a saper riconoscere un contesto elegante
da uno informale è parte integrante dell’istruzione).
A Tropea (zona Vibo Valentia, Calabria: la regione
culturalmente più arretrata d’Italia), il proprietario di una dependance (fan di Vladimir Putin e sgrammaticato), parla con due ragazzi che
gli chiedevano in affitto una camera, gli dà l’OK, ma poi, pensandoci su, e
ipotizzando che fossero “due gay” (come dicono notoriamente gli omofobi), nella
sua stupidità (che del resto rispecchia vari personaggini che si trovano o che
sono stati in Parlamento) gl’invia un ultimissimo messaggino come post scriptum: “sappiate che noi non
accettiamo gay ed animali”. L’episodio si è ripetuto, non si sa se per
imitazione, in Salento: “Non si accettano coppie omosessuali anche se unite da
rito civile”. Il settimanale diocesano dell’omofoba Trieste scrive ai propri
fedeli, che immaginiamo molto anziani, che ai bei vecchi tempi gli “alberghi
seri davano le stanze a coppie sposate”. Mentre un’avvocata attivista c’informa
che quel genere di discriminazione fatta da quel calabrese che ha quelle idee
da andrangheta è illegale, eppure chissà quanti casi così: del resto, siamo un Paese così disabituato
all’eguaglianza che qui a Milano sono considerati perfettamente normali, e
accettati in primis dalle donne della
piccola borghesia, gli annunci d’affitti a studentesse: “per-sole-ragazze”. Naturalmente, resterà impunito. Questa intolleranza è la
stessa manifestata orgogliosamente da quell’avvocaticchio della destraccia
(difensore di una folle e pericolosa figlicida) il quale disse in radio che lui
non assumerebbe mai un gay perché sono diversi, gli stanno antipatici ed ha
rivendicato questo suo diritto?
In un agriturismo del Salento è stato fotografato un
cartello che distingueva le toilette per
soli gay (“era della precedente gestione, l’avevamo coperto ma qualcuno l’ha
riesumato”). A Latina (città che si
conferma fascista come le sue storiche radici), una bella ragazza, Massimina,
s’è seduta al tavolo di un locale sul litorale con un’amica, si è sentita dire
dalla proprietaria: “A voi trans non vi
vogliamo…andate al bordello!” Sono state
spintonate fuori (questo sì in modo non esattamente femminile): “siete uomini,
donne o froci?” (la parola più comune in quella regione per riferirsi alle
persone omosessuali, ndr). La nostra stampa è complice dell’equazione trans/escort perché usa il primo come
sinonimo del secondo. Ma chi sin da piccolissimo sente di appartenere al sesso
opposto non sogna una miserabile vita da prostituta, desidera bensì una vita
felice: ci basta sentire le storie di chi ce l’ha fatta in questo doloroso
percorso comunque difficile da comprendere ma che richiede un coraggio morale
che non possiamo non rispettare.
A Vercelli un commerciante era lì lì per dare un lavoro ad
una 18enne se non fosse che è andato a fare ciò che (mi dicono) oramai fan
tutti i datori di lavoro e cioè ficcare il naso nel suo profilo Facebook: ha scoperto che la ragazzina
aveva “un sacco di amici africani” e non solo le ha risposto io-non-do-la-mia-cassa-a-chi-divide-la-sua-vita-con-un-africano, ma ha anche raccontato allegramente l’episodio ai propri
amici su FB!
A Cervia, un ragazzo di origine brasiliana con la pelle
nera si è sentito bocciare via sms la sua candidatura come cameriere con
l’incomprensibile scusa: “Mi dispiace ma qui la gente è molto indietro come
mentalità”.
A Verona una liceale 15enne si candida ad un concorso
canoro. Le viene risposto in malo modo a mò di lezione di vita che non è una vera italiana (è visibilmente
di sangue africano, i suoi sono originari del Ghana). Lei la prende con
filosofia ma intanto non ci si rivolge così ad una ragazzina.
Visto che la ragazza fa il liceo classico (cosa di cui già
dovremmo felicitarci visto che presuppone un eccellente italiano), vorrei
citare uno scrittore greco antico, Isocrate (V – IV secolo avanti Cristo):
“Atene ha fatto sì che il nome di “Greci” designi non più una razza bensì una
maniera di pensare: sicché sono chiamati
“Greci” non quelli che hanno in comune con noi il sangue ma quelli che
condividono con noi un’educazione” (paidéia,
da páis, bambino): ecco il principio dello ius culturae su cui dovremmo lavorare tutti insieme per creare una
cultura comune. Questo implica comunque non
abbandonarsi alla facile e vigliacca tentazione del multiculturalismo, cioè
l’accettazione d’inaccettabili retaggi culturali altrui che alla lunga
risulterebbero distruttivi per le nostre dolorose conquiste della nostra
peraltro limitata (come abbiamo visto) cultura dei diritti, magari scritti
sulle carte ma non nei cuori. Ci vuole sia una conoscenza critica della Storia,
sia una filosofia della Storia.
Quindi, come vedete, in questi contesti negli esempi sopra
riportati non siamo nemmeno al livello, che sarebbe già un certo progresso di
civiltà, della tolleranza: questa serie di persone vengono proprio cacciate per
come sono all’anagrafe, prim’ancora di venire conosciute e riconosciute per le
loro qualità ed abilità umane!
Quel che è certo è che queste storiacce di cronaca sono lì
a dimostrare che la natura ignorante del pregiudizio è sostanzialmente la
stessa, come diceva Coretta Scott King: “L’omofobia è come il razzismo e
l’antisemitismo perché tenta di negare umanità ad un intero gruppo di persone”.
Senza conoscerle o volerle conoscere, come abbiamo visto.
Il nostro Stato, se vuol essere credibile, deve punire
queste discriminazioni di stampo fascista, anziché fare pretestuose stupide
leggi sui simboletti del Ventennio.
****
LA CULTURA DELLA DROGA
IL MESSAGGIO di GIORGIA, ANGELO MESSAGGERO: 17ENNE RISCHIAI LA VITA PER UNA PASTIGLIA
A
Genova la 16enne Adele si lascia mettere in bocca dal “fidanzatino” (ancora una
volta!) 21enne (colui il quale dovrebbe prendersi cura di lei) una pasticchetta
di ecstasy (Mdma), dalla forma di
caramellina colorata: per “sballarsi”, come dicono i giovani ineducati a
divertirsi con semplicità e a trarre autentiche gioie dalla creatività.
I suoi “amici” (ripeto: servirebbe un ciclo interdisciplinare tematico nelle scuole dell’obbligo intorno a questa parola in tempi in cui regna confusione etica enorme, a partire dalle distorsioni nate da abusi di Facebook) non volevano chiamare l’ambulanza (chiaramente per tema di venir scoperti dai genitori sotto l’effetto della droga): sarà un passante, un netturbino, a chiamare il 118. Adele crepa sul marciapiede. Per far passare l’effetto, stava facendo una passeggiatina col moroso ma il cretino era così “fatto” da non rendersi conto di quanto lei stesse male. Su Facebook si scambiavano nei messaggi pubblici i cuoricini e pubblicavano selfie di coppia: bell’amore! Questo esibizionismo volgare dev’essere frutto della cultura diffusa dalla televisione, dai programmi spazzatura della De Filippi che presenta persino coppie false (alla maniera degli attorucoli senz’arte né parte e delle attricette di terza categoria che non sanno inventarsi altro per far parlare di sé), col risultato che giocare a “fare il partner” di una persona viene ritenuto persino un giuoco di società, un divertissment, un modo per apparire.
I suoi “amici” (ripeto: servirebbe un ciclo interdisciplinare tematico nelle scuole dell’obbligo intorno a questa parola in tempi in cui regna confusione etica enorme, a partire dalle distorsioni nate da abusi di Facebook) non volevano chiamare l’ambulanza (chiaramente per tema di venir scoperti dai genitori sotto l’effetto della droga): sarà un passante, un netturbino, a chiamare il 118. Adele crepa sul marciapiede. Per far passare l’effetto, stava facendo una passeggiatina col moroso ma il cretino era così “fatto” da non rendersi conto di quanto lei stesse male. Su Facebook si scambiavano nei messaggi pubblici i cuoricini e pubblicavano selfie di coppia: bell’amore! Questo esibizionismo volgare dev’essere frutto della cultura diffusa dalla televisione, dai programmi spazzatura della De Filippi che presenta persino coppie false (alla maniera degli attorucoli senz’arte né parte e delle attricette di terza categoria che non sanno inventarsi altro per far parlare di sé), col risultato che giocare a “fare il partner” di una persona viene ritenuto persino un giuoco di società, un divertissment, un modo per apparire.
Il pusher dei due
“fidanzatini” era un 17enne. “Bravi ragazzi”,
li chiamano gl’inquirenti (non sto scherzando: lo scrive la “Repubblica”): l’Italia buonista ove non
esiste il senso di responsabilità personale assolve persino chi fa un uso
saltuario di queste droghe, come se fosse solo affar suo il fatto di
presentarsi in giro in stato alterato.
Insomma, questi genitori non conoscevano davvero questa loro figlia
sedicenne così come il figlio diciassettenne della vigilessa figlicida non
conosceva realmente la propria madre!
Sveglia: questi sì che sono esempi allarmanti di disgregazione delle famiglie
italiane, altro che inesistenti “matrimoni gay”!
Non si sa quanto sia diffusa quest’anfetamina (bastano
quindici euro, praticamente l’ingresso di una disco, e va costando sempre meno
una dose). Di certo, troppi giovani ignorano che può provocare persino il coma profondo, come nel caso di questa
ragazzina morta e come nel caso di Giorgia Benusiglio, 34enne milanese
diventata testimonial nelle scuole
contro le droghe dopo essersi salvata grazie ad un trapianto di fegato per
la prima ed unica pastiglietta che ha assunto in vita sua, a 17 anni.
(E ciò mentre la Francia, Paese serio, condanna al carcere,
sia pure solo ad un anno, quel 49enne pilota tossicodipendente della Easyjet
per essersi messo al comando dell’aereo ancora sotto gli effetti proprio
dell’ecstasy: era solo 1/3 di pastiglia, s’è difeso lui. “Credevo che gli
effetti si limitassero a due ore dopo l’assunzione”, e così prendeva le sue
innocue pastigliette solo due giorni prima di volare: “così fan tutti”. E
invece non è così semplice: il suo stato alterato l’ha costretto ad effettuare
un atterraggio “n’importe quoi”
terrorizzante pei passeggeri.)
Intanto, a Milano, è rimasto ucciso dall’eroina un noto chef: come aveva denunziato la nostra assessora Carmela Rozza,
questa droga pericolosissima si sta
tornando a diffondere come negli anni Settanta, quand’anche i figli delle
famiglie borghesi ne diventavano dipendenti e solo a quel punto s’incominciò a
tematizzare il problema. Addirittura, dice un esperto, l’eroina oggi viene
usata come “calmante” dopo l’uso di altre droghe!
Nello sport agonistico italiano permane la piaga del doping individuale dei singoli atleti:
un’atleta è ricorsa al miserabile espediente di mettere un farmaco dopante
nella minestrina preparatale dalla madre ammalata di tumore (per aver poi
pronta la scusa, nel caso di esami del sangue delle autorità di controllo, che
la mamma un po’ sbadata aveva avuto una svista e aveva condito con il proprio
farmaco oncologico che contiene, fatalità che strana coincidenza, lo stesso
principio attivo di una droga dopante), a Modena a Mattia, bel ragazzo di ventiquattr’anni
aspirante nuotatore agonista, si ferma il cuore: si stava allenando in una
palestrina priva di permessi e senz’aria condizionata di proprietà dei
pompieri, tutto solo, senza la guida del proprio coach. Che, figuriamoci, si difende subito dicendo che poteva pure
farli da solo i pesetti, “non era vero e
proprio allenamento”. “Repubblica” ci
dà intanto un dato certo: che in caso di controlli sui gym club, 1/3 di queste palestrine presenta delle irregolarità,
sintomo di una mancanza di cultura della sicurezza. Nessuna parola dalla
ministra della Sanità: cosa possiamo aspettarci da una persona così priva non
già di una laurea, bensì di una qualunque esperienza tecnica e cultura
umanistica?
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CASI di MALASANITA’ CHE UCCIDE:
GIOVANI INASCOLTATI, LASCIATI MORIRE DAI MEDICI
E veniamo dunque ai vari casi di malasanità che hanno
colpito giovani lasciàti morire dai medici quest’estate: ve ne cito due in
particolare che riguardano due giovani.
A Rimini la mattina di Ferragosto Carlo, 34enne di Barzanò
(Lecco), è morto per un infarto nel letto dell’albergo delle vacanze accanto
alla sua ragazza dopo un massaggio cardiaco di 25 minuti; ma la sera prima, la
guardia medica a cui si era rivolto accusando mal di stomaco, nausea e vomito,
l’aveva dimesso.
A Napoli un ragazzo di ventitré anni, Antonio, giunge in
politrauma e fratture multiple in pronto soccorso all’ospedale Loreto Mare.
Quattr’ore d’attesa mentre dei medici ed infermieri litigano sotto gli occhi
dei suoi genitori, e il giovane muore l’indomani mattina. Il responsabile del
pronto soccorso, che dovrebbe trovare ubbidienza per il suo ruolo, non trova la
minima collaborazione anzi per tutta risposta subisce una specie di mobbing a scapito del povero paziente, e
conclude: “Credo che i fatti evidenzino superficialità e disprezzo per la
tutela dell’utenza, ancor prima dell’inosservanza dei più elementari doveri professionali”. Questa mentalità
è precisamente la definizione psichiatrica del profilo del criminale
sociopatico e che lo rende pericolosissimo e
distruttivo per la società: il disprezzo dei diritti umani. Il padre denuncia: “Me l’hanno ucciso. Mio figlio era un
leone e l’ho perso a causa della totale negligenza dei medici che l’avrebbero
invece dovuto curare”.
E’ facile immaginare che la malasanità deriva dalle lauree
facili in certi atenei del Sud. Ho letto che in un’università del Meridione il
record di fuoricorso (un numero abnorme) riguarda proprio gli studenti di Medicina.
E sapete che iniziativa tragicomica ha intrapreso il “rettore”? Non ci
crederete: attribuendo questo ritardo all’ansia, insomma ad un disturbo
psicologico di poveri studenti incolpevoli e timidi, ha reclutato le psicologhe
specializzate nella cura dell’ “ansia da esami” (disturbo di nuovissimo conio
da parte di queste salvifiche psicoterapeute!). E un giornale che reputavo
serio come “Repubblica” riferisce
serissimamente la notizia, che è palesemente un ennesimo escamotage dei baroni universitari di piazzare amichetti ed amichetti
degli amichetti con incarichi assolutamente inutili e inesistenti.
Malasanità si ha anche quando succede come a Como ove
un’assassina ha avuto giuoco facile a soffocare, indossando guanti di lattice,
una 91enne sofferente psichica residente come lei nella “casa di riposo”:
infatti, “i controlli, come accertato dagl’inquirenti, avvenivano al massimo a
distanza di 20-25 minuti” (sic).
Insomma veniamo così sapere quei poveri nipoti hanno affidato quell’anziana
donna non più autosufficiente ad una struttura che non ha abbastanza tempo per custodirla
e proteggerla. Ma questo particolare non pare scandalizzare nessuno: ripeto, in
Italia sono tutte “cose che succedono”.
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IL DOVERE DI PROTEGGERCI A VICENDA: SENZA DOVERI NON
ESISTONO DIRITTI
Ecco, questo è
il bilancio horror dell’estate
italiana: tante vite spezzate, giovani vittime tanto dello Stato quanto della
società civile. E i colpevoli tutti assolti dall’opinione pubblica italiana,
proprio come nei nostri tribunali: chi si droga, purché si droghi
solo a weekend alterni, chi uccide il
figlio se poi uccide anche sé stesso, chi lascia il bébé in auto sotto il
solleone, sono tutte povere vittime prive di vere e proprie responsabilità
verso chicchessia. Siamo capaci di una ben perversa commiserazione verso i
carnefici ma siamo incapaci di vera compassione attiva verso le vere vittime.
Assolviamo i carnefici e così noi
stessi, contribuendo a rafforzare una mortifera cultura di merda ove, non
esistendo chiari doveri, non possono esistere nemmeno i diritti. Con la
scusa della “fragilità umana”, siamo diventati incapaci d’incoraggiare chi ci
vive vicino a vivere senza droghe o a non disperare, ormai la depressione viene
vista come una malattia che cade dal cielo e chi non regge il peso della vita
sono cavoli suoi.
E con questo pensiero
rassicurante, l’Italia se ne va al mare giuliva, si diletta a discettare di
quale sia la regione originaria del tiramisù, riempie i concerti di Vasco Rossi
(vera icona della cultura della droga unico modello capace di attirare en masse i nostri giovani) e spende le
proprie lacrimucce per Paolo Villaggio, uno il cui unico, miserabile pensierino
della vecchiaia, c’informano i suoi, era assicurarsi di avere dei funerali
grandiosi. Un pensierino davvero indicativo dell’individualismo tipicamente da
minuscolo borghesuccio qual è il suo orribile Fantozzi che tanto piace a così
tanti nostri connazionali.
Domenica 29
ottobre il mio cinetalk “Il Cinema e i Diritti” riparte alla grande: in un’epoca in cui l’Europa perde la sua autorevolezza e
credibilità occupandosi d’insetti come
cibo, a sessant’anni dall’avvio del processo dell’Unione Europea (coi Trattati
di Roma nel 1957) abbiamo ideato una speciale
rassegna tutta incentrata sul meglio della nostra cultura, sui nostri eroi e
sulle nostre migliori radici culturali: greche, cristiane ed ebraiche.
Partiremo con un grande film del nostro filmmaker
Antonello Ghezzi sulla Riforma luterana: Lutero ha dato impulso all’istruzione
pubblica, all’economia e all’etica del bene comune, precisamente tutto ciò che
in Italia non siamo riusciti a costruire bene. Eppure proprio i “grandi” giornali
dalla retorica europeista di facciata non hanno ritenuto di dedicare alcun tipo
di approfondimento all’anniversario dei cinquecento anni (a parte qualche
articoletto coi soliti pregiudizi tradizionali di di derivazione cattolica, di
cui i sedicenti “laici” de noantri non si rendono nemmeno conto), nessun
allegato, nessun dvd: il nulla.
Potremmo diventare ricchi proiettando i filmini da incasso assicurato peraltro violenti, volgari ed inadatti alle famiglie come fanno le già ricchissime parrocchiette milanesi avide di denaro. Invece noi facciamo un lavoro serio ed una selezione estremamente accurata pensata davvero per tutti, perché crediamo nel potere del buon Cinema di unirci nelle emozioni e vogliamo far riscoprire a tutti i vari educatori la potenza di quest’arte così spesso snobbata ed inesplorata (penso a certe scuole persino prive di un funzionante schermo per le proiezioni). La nostra mission è, attraverso sia il buon cinema sia i nostri documentari, dare spunti creativi per sviluppare queste capacità che ci rendono pienamente umani d’immaginare i sentimenti del nostro prossimo, d’intuire le emozioni dei nostri vicini: in un mondo ove tutto scorre qui velocissimo sulle schermate del poco valorizzato Facebook (che potrebbe davvero essere agorà di discussioni feconde), dell’orrendo Twitter e dell’assurdamente narcisistico Instagram, dobbiamo assolutamente trovare il tempo di soffermarci a pensare e trovare un senso ai fenomeni. Riscopriamo insieme il valore di diventare buoni vicini e concittadini, creando da noi stessi in prima persona e in coppia le occasioni di parlarci, di uscire e vedere al cinema sul grande schermo un bel film, impariamo a crearci una nostra videoteca familiare. Anche da qui, dal piccolo rito familiare di andare assieme al cinema o al cineforum della domenica pomeriggio, possiamo ricreare ogni volta il senso della famiglia, palestra di confronto e di emozioni comuni: come dimostrano tutti i film che abbiamo proposto, il nostro pensiero va sempre in primis alle famiglie, tutte le famiglie, incluse le famiglie di buoni amici. Per parte nostra, avremo cura di ciascuno di Voi, ed è parte della nostra mission farVi sentire tutti a Vostro agio e stimolare la cultura della responsabilità, della creatività e della fraternità. Nel nostro piccolo, ci proviamo.
Lele Jandon